domenica 3 agosto 2014
Caso Tavecchio, una settimana per trovare un’intesa sul nuovo presidente. Serve un uomo di calcio, che convinca con la forza dei programmi. Alberto Caprotti
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Peggio (molto peggio) dei giorni dell’eliminazione dai Mondiali. L’Italia del pallone chiude una delle settimane più allucinanti della sua storia, trascorsa a commentare una battuta più stupida che razzista, pronunciata dall’uomo che fino ad un secondo prima era il candidato unico per diventare il presidente del nostro calcio. Ovviamente con l’appoggio di (quasi) tutti coloro che hanno il potere di eleggerlo. Poi arriva la frase - maldestra certo, ma probabilmente non ispirata da un vero sentimento razziale - su certi calciatori africani “che passano dal mangiare le banane a titolari in Serie A”, e Carlo Tavecchio diventa di colpo «impresentabile » per (quasi) tutti. In perfetta linea con l’abitudine nostrana di giudicare le persone non per quello che sono e fanno, ma per quello che dicono.  Tavecchio oggi è l’uomo della vergogna. Per una frasaccia, soprattutto per il ruolo a cui aspirava e tutt’ora aspira, che doveva e poteva assolutamente risparmiarsi. Ma fondatissima nella sostanza. A meno che non si possa più obiettare che certi “bidoni” stranieri vengano considerati campioni solo dal nostro calcio, che continua assurdamente a investire su di loro anziché sui giovani di casa nostra. Il vero scandalo, altrettanto grave e inaccettabile era (ed è) invece che si possa pensare ai Tavecchio di turno come ai possibili riformatori del pallone nostrano, uscito battuto, svergognato e dimissionato nei suoi vertici politici e sportivi dal Mondiale brasiliano. E questo non solo perché Tavecchio abbia 71 anni e occupi le stanze del calcio da decenni senza aver contribuito a cambiarlo in meglio, circostanza comunque opinabile. E neppure, al limite, per certi suoi chiacchierati trascorsi. Ma perché - frutta tropicale a parte - a tutt’oggi non si sa bene ciò che ha in mente di fare. Demetrio Albertini è stato, ed è, al momento l’unica candidatura alternativa. Prima da lui stesso esclusa, poi diventata ufficiale quasi contro la sua perplessità. L’uomo nuovo (perché è giovane?), grande giocatore ai tempi, ottima persona, forse troppo. Ma lui pure comunque da 7 anni nei palazzi federali. Dai quali aveva annunciato l’intenzione di dimettersi prima ancora del tracollo mondiale, e dai quali si è effettivamente sfilato. Promettendo che non ci sarebbe rientrato se non fossero cambiate molte cose. Nulla in pochi giorni è ovviamente cambiato, ma la convinzione - non di tutti purtroppo - che Tavecchio sia in assoluto l’uomo sbagliato per il ruolo, ha convinto Albertini a candidarsi. Pur sapendo che avrebbe avuto (e avrà) troppi avversari per vincere, ed eventualmente per governare. Ma le proposte? Le idee? Quelle che contano, o meglio dovrebbero contare più delle banane e della pelosa indignazione di chi si accoda ai pretesti per mettere alla berlina un personaggio anziché un sistema? Certo, i due contendenti le hanno elencate al presidente del Coni, Malagò. E Albertini almeno le sue linee guida le ha tracciate: riforma dei campionati con la Serie A ridotta a 18 squadre, “rose” bloccate a non più di 25 giocatori con un minimo di 10 cresciuti nel vivaio, rilancio della scuola di Coverciano, alcuni degli interventi che ha in mente. Ma chi dovrebbe giudicare e votare i due candidati nemmeno li ha chiesti e pretesi, in verità, questi programmi. Un vuoto di prospettive e di aspettative pubbliche che colpisce, e intristisce, più di qualunque battutaccia.  Un piano in 11 punti, anche Tavecchio l’aveva annunciato. Più generico. Elementare. Fumoso. Buono per chiunque e per tutte le stagioni, e probabilmente quindi per restare sulla carta. O per essere modellato secondo gli interessi dei grandi elettori di Tavecchio. Il resto è un gioco sordido di dirigenti che si dichiarano sempre contro (e tardi), e mai a favore di qualcuno o qualcosa. E di assurdi equilibrismi. Ad iniziare da quelli del presidente del Consiglio, che annuncia di non potersi schierare, «altrimenti la Fifa squalificherebbe le squadre italiane». Tesi fantasiosa, per non dire ridicola, visto che a Matteo Renzi nessuno chiede di decidere direttamente chi debba diventare il capo del calcio, ma di dire ciò che pensa su situazioni e persone. Prerogativa che nessuna democrazia può sanzionare, neppure quella bacata del calcio. Così l’Italia resta il Paese delle banane, del pallone bucato e svergognato, con due soli nomi che si fanno avanti per provare a sistemarlo. Serve un manager, o comunque un uomo di calcio e per il calcio, uno sforzo di coraggio. Albertini ha probabilmente le qualità, gli mancano gli appoggi. Quelli che magari potrebbe ottenere superando le proprie timidezze e battendo con la forza delle idee un avversario che non ha più alcuna credibilità e che - se eletto - rappresenterebbe una rovina anche d’immagine per il sistema pallone. Ma che nonostante questo, ancora oggi ha i favori del pronostico. C’è ancora tempo per rimediare prima della nomina dell’11 agosto. Poco tempo, però. Perché le banane marciscono in fretta.
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