lunedì 14 marzo 2011
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«L'altro giorno un bambino di 6-7 anni mi ferma assieme al suo papà che mi dice: “Potrebbe fare un autografo a mio figlio che è un suo grande fan? Io resto un po’ stupito, ma firmo il quaderno. Il bambino legge e andando via sento che fa al padre: “Ma papà, chi è questo Meneghin?”». Dall’alto dei suoi 204 centimetri sorride divertito “magic” Dino Meneghin, da Alano Piave, 60 anni, leggenda del basket azzurro e internazionale, uno dei tre azzurri, con Cesare Rubini e Sandro Gamba, entrato nell’Hall Fame americana. Da due anni è il presidente della Fip (Federazione italiana pallacanestro) che nel 2011 festeggia i 90 anni dalla fondazione.Nel calcio un ex atleta che diventa presidente federale non si è ancora visto: la pallacanestro vola sempre più alta di tutti?«Sarebbe bello, ma il basket ha aperto da poco agli ex cestisti dando la presidenza al sottoscritto. In ogni ambiente sportivo c’è bisogno di campioni e di modelli che agiscano all’interno del movimento, per questo ho chiamato Pittis, Bonamico (Presidente Lega2) e la Fullin femminile (team manager Nazionale femminile). Tutta gente che la pensa come me: siamo qui non per scopi economici e tanto meno politici, ma solo per ridare indietro al basket quel patrimonio di emozioni e di fortune che ci ha regalato».E il movimento come sta reagendo all’interno della galassia sport?«Abbiamo le stesse sofferenze di altre federazioni, specie alla voce: reperimento fondi. Trovare degli sponsor che vogliano investire diventa sempre più difficile, soprattutto al Sud, dove la passione di piazze come Caserta, Napoli o Bari, non è proporzionale alle risorse messe in campo. Ma per fortuna abbiamo altre ricchezze...».Fuori i tesori allora...«Uno sport di base che funziona e che è in crescita continua. Rispetto a vent’anni fa si gioca molto di più. Lo dimostrano i quasi 112mila tesserati giovanili e i 144mila iscritti al minibasket. Dobbiamo migliorare ancora parecchio sul reclutamento femminile. Essendo uno sport di contatto, le ragazze sono poche, ma il nostro impegno è di portarne sempre di più nell’immediato futuro».Quanti soldi ci sono nei “canestri”?«Il nostro budget è di 34 milioni l’anno. Ma con quelli dobbiamo pagare le tasse e sostenere 32 club professionistici, più tutto l’apparato tecnico, arbitri compresi. Il nostro obiettivo principale è quello di incentivare i “premi produzione” che non possiamo far mancare alle realtà più piccole, come l’Alano Piave (società di Serie C), che da anni lavorano e si dedicano esclusivamente alla crescita dei talenti del nostro basket».Quanto sta incidendo la crisi economica sulla pallacanestro?«Si sente come dappertutto, ma la nostra filosofia è quella della formichina. La Cobec con noi effettua controlli trimestrali e la seconda volta che una società non è a posto con i bilanci, non scatta, come nel calcio, la penalizzazione dei punti, ma siamo costretti a non ammetterla al campionato».Dopo la “scomparsa” della Fortitudo Bologna, assisteremo all’uscita di scena dei Benetton a Treviso.«Una perdita che preoccupa perché stiamo parlando di una famiglia come quella dei Benetton che ha un impatto mondiale e che ha investito a 360 gradi nello sport. Però hanno garantito la loro presenza nel basket a Treviso fino al 2012 e nel frattempo si spera che arrivi una cordata di imprenditori in grado di mantenere ad alto livello questa società gloriosa».L’unica gloria nazionale, al momento, sembra essere solo questo Siena pigliatutto.«Siena vince perché sa programmare, decidono in pochi e possono contare sulla mente manageriale di Ferdinando Minucci e sul miglior tecnico in circolazione, Simone Pianigiani, che non a caso è anche il coach della Nazionale. E poi non dimentichiamoci che hanno un partner come il Montepaschi che è qualcosa di più di uno sponsor stampato sulla canottiera».Però in Europa, Siena compresa, tutti i nostri club pagano dazio.«È normale: Panathinaikos, Mosca, Barcellona, Besiktas, sono realtà con un budget 3-4 volte superiore alle nostre società e hanno rose di giocatori stellari. Le loro riserve sarebbero tranquillamente titolari irremovibili in ogni quintetto base delle nostre squadre».La Montepaschi Siena, come l’Inter nel calcio, vince grazie agli stranieri. Non sono un po’ troppi anche sul parquet?«Vorrei vedere dei quintetti composti per il 50% da italiani, ma questo argomento è un gatto che si morde la coda. Gli stranieri costano meno rispetto agli italiani e quando gli stranieri sono di qualità garantiscono i risultati. E i tifosi di basket, in questo sono uguali a quelli del calcio, “basta che si vinca”. Poi quei tifosi sono gli stessi che vorrebbero una Nazionale vincente, quando però gli italiani fanno fatica a crescere e a trovare spazio nelle loro squadre».Rispetto al calcio che è metropolitano, il basket domina e si nobilita in provincia.«La provincia da sempre rappresenta il nostro zoccolo duro, ma vorremmo che a fianco ad essa coesistessero realtà metropolitane importanti, come Torino, Genova, Firenze, Bari che al momento latitano. Negli anni ’80 il duello Roma-Milano calamitava le attenzioni dei telegiornali, c’erano 15mila spettatori per una finale scudetto. Che tempi...».Abbiamo gli stadi più vecchi d’Europa, a palazzetti come siamo messi?«Il Palaeur è stato costruito nel 1960... Abbiamo solo 8 palazzetti che hanno una capienza tra i 7-11 mila spettatori. Servono impianti polifunzionali, pensati per il lungo periodo. Il mio sogno è vederne tanti come quello di Saitama, alle porte di Tokyo, modulabile da 4.500 a 30mila spettatori, in base all’evento sportivo che ospita. Le famiglie lì ci arrivano fin dentro con la metropolitana e possono restarci tutto il giorno con i bambini, passando da un negozio, a un ristorante, a un cinema, per concludere con la partita di basket. Per ora questo da noi è solo un sogno».È un sogno anche pensare di vedere del basket olimpico a Roma 2020?«Io mi fido del presidente del Coni, Gianni Petrucci, quando mi dice che il 70% degli impianti sono praticamente già pronti per ospitare le Olimpiadi di Roma».Dopo Meneghin, chi dei tre “italiani d’America” può diventare il 4° azzurro nella Hall Fame?«Bargnani è il più tecnico e il più freddo. Belinelli, un estemporaneo che ricorda un po’ Pozzecco. Gallinari dei tre è il più giovane, ma ha già il carattere del leader e in questo un po’ forse mi somiglia. Auguro a tutti e tre di entrare nella Hall Fame, ma siccome è un ingresso che avviene minimo dopo 5 anni che si è smesso di giocare, e loro hanno ancora tutta una vita davanti, temo che sarò molto vecchio per andare a vederli».Nel frattempo, cosa desidera vedere il presidente della “90enne” Fip?«Divertimento e socializzazione. Tanti playground, come quelli americani del secolo scorso. Gamba mi racconta sempre che negli Usa le sfide 3 contro 3 erano nate essenzialmente allo scopo di creare integrazione tra le varie etnie. Noi viviamo in una società globale e multirazziale, in cui per abbattere ogni forma di barriera ideologica o religiosa, dobbiamo piazzare un canestro ovunque, dagli oratori fino alle strade e le piccole piazze di quartiere. Il nostro basket può e deve riuscirci».
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