mercoledì 14 aprile 2021
Il “Cunto de li Cunti” dal dialetto partenopeo alla prima versione italiana: scoperta in America l’edizione “princeps” del 1747
Giambattista Basile in un'incisione di Giacomo Pecini

Giambattista Basile in un'incisione di Giacomo Pecini - WikiCommons

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Chi avrebbe mai detto che il Cunto de li cunti (1634-1636) di Giambattista Basile, scritto in stretto dialetto napoletano, arrivasse in Germania a Clemens Brentano e ai fratelli Grimm ben prima che Benedetto Croce ne fornisse, a uso dell’Italia unita, una versione in italiano? È la straordinaria scoperta fatta da una giovane studiosa, Roberta Morano, ora borsista presso l’Istituto Croce, allieva di Giacomo Jori all’Università della Svizzera Italiana, che ha ritrovato in una biblioteca americana, la Cornell University Library, la rarissima princeps del Conto de’ conti, 1747, nota in Italia solo per la reimpressione del 1754, per cura dello stesso stampatore: «Cristoforo Migliaccio a S. Biaggio de’ librai e proprio dirimpetto la chiesa di S. Liguoro delle Signore Monache» (anche di questa ristampa gli esemplari sono rarissimi, uno mutilo alla Biblioteca universitaria di Napoli, l’altro a Milano alla Trivulziana). Avevamo sin qui un Romanticismo di soli nobili (Alfieri, Manzoni, Leopardi); mancava – avrebbe detto il De Sanctis – quella vena popolare piena, corale, che attinga al patrimonio della memoria collettiva quale solo Goldoni era riuscito a mettere in scena con garbo e ironia, ma – aggiungeva De Sanctis – senza il «mondo interiore della coscienza, operoso, espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento ». E così scriveva perché ereditava da un mondo di “eroi” (aggiungiamo il sentire del Foscolo), che non era stato visitato dalla favola, come invece la Francia di Perrault o la Germania di Johann Peter Hebel.

Certo il De Sanctis fu tentato di indulgere a Carlo Gozzi, al mondo delle sue fiabe, col suo «rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo»; ma dietro non aveva che il corteo delle maschere e della commedia dell’arte, insufficienti a reggere l’urto del «secolo degli spiriti forti e de’ belli spiriti». Ma egli non ebbe a conoscere il Conto de’ conti: non poteva aver notizia – abbiam dovuto attendere Italo Calvino – di quella «trasfusione di sangue napoletano per via letteraria» ( Sulla fiaba, 1988), prima a Bologna – come osserva Roberta Morano – già irrorata dalle linfe di Giulio Cesare Croce, poi in altri dialetti regionali. Si ristabiliva insomma, attraverso quella traduzione in volgare, una ben netta linea di continuità, nel registro popolare, della 'morfologia della fiaba' italiana che – come volle Giuseppe Prezzolini – è il tratto più profondo della nostra tradizione da Giulio Cesare Croce, al Basile, a Gozzi, a Collodi. La novità tuttavia è che, attraverso la mitigazione del volgare italiano, il deforme perde il tratto “orroroso” (Giovanni Getto) del barocco e del suo espressionismo dialettale, per collocarsi piuttosto su un piano di calcolata redenzione, di tragico, sublime e grottesco insieme, come nella splendida novella del “Re di Roccaforte” (I, 10), che ignora la dissonanza dei sensi: «Abitava vicino al palazzo del re di Roccaforte una vecchia ch’era la quintassenza della bruttezza, per la qual cosa, per non farsi vedere da alcuno, stava sempre nascosta dentro la casa sua, ma perché aveva una voce angelica, molte volte si poneva a cantare. Il re, un giorno, mentre stava alla finestra, in sentire una voce così fina di maniera restò estatico, che pensò ivi esservi il compendio della bellezza».

È quell’«incantevole bruttezza» su cui ha scritto una finissima meditazione Marcel Proust: «Il rispetto, non dico l’amore, per la cattiva musica non è soltanto una forma di quel che si potrebbe chiamare la carità del buon gusto o il suo scetticismo, è anche la coscienza del ruolo sociale della musica. Quante melodie, di nessun pregio agli occhi di un artista, fan parte della schiera dei confidenti scelti dai giovanotti sentimentali e dalle innamorate! Quanti “ Anelli d’oro”, di “ Ah! resta a lungo addormentata”, le cui pagine vengono sfogliate ogni sera, […] nobilitano il dolore ed esaltano il sogno e che, in cambio del segreto ardente che viene loro confidato offrono l’illusione inebriante della bellezza!» ( Éloge de la mauvaise musique, in Les plaisirs et les jours). Ha ragione Giacomo Jori, nella sua ricca ed elegante Premessa a Il conto de’ conti. Le fiabe del Basile nella prima traduzione settecentesca (a cura di R. Morano; Aracne, pagine 372, euro 18), a sottolineare il giudizio di Benedetto Croce: «Si potrebbe persino affermare che il Pentamerone del Basile sia il più bel libro italiano barocco, quale non è certo il verboso e gonfio Adone: il più bello, appunto, perché il barocco vi esegue una sua danza allegra e vi appare per dissolversi»; perché esso vi è non per affermarsi, ma per transitare in un incanto che non ha tempo. Sarebbe infatti riduttivo vedervi soltanto, nel traduttore del Basile, il repertorio del paradosso continuo di bellezza / bruttezza, povertà /ricchezza, astuzie / disinganni, tipico del popolare; vi è – in quegli amori che sbocciano e si dissolvono – l’eco quasi dell’apologo di Amore e Psiche: «Ridolfina va per attigner acqua da una fontana ivi ritrova uno schiavo, il quale conducendola ad un mangnifico palazzo, vien’ella trattata da regina. Ma, consigliata dalle sorelle invidiose a vedere con chi la notte dormisse, ritrovò un bellissimo giovine, del quale perde la grazia e dal medesimo vien discaciata. Indi, dopo vari accidenti, arrivando in casa del suo amante, diè alla luce un figlio maschio, locchè fu cagione della pace e delle nozze » ( Il catenaccio, II, 9).

Non dobbiamo pensare esclusivamente all’alta parabola che va da “I tre cedri” ( Lo Cunto de li cunti, V, 9) all’Amore delle tre melarance di Carlo Gozzi all’opera omonima di Sergej Prokof’ev; occorre indugiare nei registri umili, nell’enfasi del lievitare – così bene evocato da Piero Camporesi – del “bread of dreams” di un Addio, monti molto più quotidiano che quello prestato dal Manzoni a Lucia: «Tienete, ca te lasso, bello Napole mio! chi sa se v’aggio da vedere chiù, mautune de zuccaro e mura de pasta reale? […] A dio pastenache e fogliamolle, a dio zeppole e migliaccie, a dio vruoccole e tarantiello, a dio caionze e ciento figliole, a dio piccatiglie e ’ngrattinate, a dio shiore de le cetate, sfuorgio de la Talia, cuccopinto de l’Auropa, schiecco de lo munno» (Basile, Lo mercante). A siffatto registro Il conto de’ conti aggiunge un transito più rapido, e come naturale, da un regno all’altro della natura, una perdita di confine, una metamorfosi incessante, ove lo scioglimento precipita per pura vertigine: «Petrosinella, vistosi di nuovo approssimarsi l’orca, li buttò la seconda noce e ne uscì un leone, parea che si volesse divorare l’orca; onde l’orca, voltandosi in dietro, vidde in mezzo di un prato un asino, subito li fu adosso e l’uccise, e pigliatosi la pelle, se la pose adosso ed andò verso il leone e, credendosi il leone che fusse asino, se ne pigliò molto paura. E l’orca di nuovo perseguitò quelli poveri giovani, senza levarsi la pelle d’asino d’adosso, ed avendo Petrosinella buttato la terza noce, ne uscì un lupo il quale, senza dar più tempo all’orca, se la divorò come fusse stato un asino; e li due amanti se ne andorno felicemente » ( Petrosellini, II, 1).

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