venerdì 1 giugno 2018
In un volume le corrispondenze nelle quali, tra il luglio del 1900 e il marzo del 1901, il principe dei giornalisti denuncia gli eccessi della repressione contro i “boxer”
I marines dell'Impero tedesco sbarcano in CIna

I marines dell'Impero tedesco sbarcano in CIna

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«I barbari siamo noi. Perdo la netta percezione di che cosa sia vera civiltà; tutto quanto credevo prima, crolla e si dilegua», scrive per il Corriere della Sera Luigi Barzini. «Ho un bel ripetermi che i cinesi sono fuori dal diritto delle genti e che noi siamo invece in perfetta regola con le leggi umane e anche divine – continua –; qui, davanti allo spettacolo dell’opera nostra, contrapposto a quello dell’opera loro, qui sento che la mia fede nella nostra civiltà si affievolisce». Siamo tra il luglio del 1900 e il marzo del 1901, e l’allora ventiseienne Barzini è inviato in Cina per documentare la prima operazione di peacekeeping della storia: la spedizione internazionale per soffocare la rivolta dei boxer.

Ora la sua corrispondenza per il quotidiano milanese è raccolta dall’editore Luni nel volume Nell’Estremo Oriente. È, questo, solo il primo dei tanti incarichi di uno dei maggiori inviati della storia del giornalismo italiano. Nel 1901 Barzini accompagna il cardinale Andrea Carlo Ferrari nel primo pellegrinaggio italiano in Terra Santa. Durante lo stesso anno arriva in Siberia e nel 1902 gli tocca la Russia. Racconta nel 1905 la guerra russo-giapponese. Due anni dopo è la volta del Marocco e, nel 1908, dell’America e della cosiddetta rivoluzione messicana. Non sarà solo la guerra a tenere occupato Barzini. Nel 1907 viaggerà al seguito del principe Scipione Borghese per documentare la gara automobilistica Pechino-Parigi. Nel 1923, poi, lascia l’Italia e va a fondare a New York il Corriere d’America. Fa ritorno in patria solo nel 1932 per dirigere Il Mattino di Napoli. Prima della scomparsa, nel 1947, come inviato del Popolo d’Italia, in piena seconda guerra mondiale, Barzini scriverà alcuni reportage dalla Gran Bretagna e dall’Unione Sovietica, che gli costeranno la censura del regime. Ma nel 1900 la sua carriera era solo ai primi passi. Allora sulle pagine di tutti i giornali troneggiavano le vicissitudini del corpo di spedizione formato da Gran Bretagna, Francia, Germania, Austria-Ungheria, Italia, Russia, Stati Uniti e Giappone e inviato in Cina per sedare la rivolta dei boxer.

A dare il nome alla ribellione c’era una società segreta di ispirazione religiosa, la Yihequan, che significa “i pugni della giustizia e della concordia”. Era animata dal desiderio di vendicare le ingiustizie inflitte alla Cina con le terribili guerre dell’oppio di qualche decennio prima. La ribellione, durante l’estate, mette a rischio la vita di diplomatici e commercianti europei e americani. A giugno i boxer, ap- poggiati dall’imperatrice Cixi, entrano a Pechino e danno l’assalto al quartiere delle legazioni straniere. A farne le spese per primo è il console tedesco von Ketteler. Per cinquantacinque giorni il quartiere si trova sotto assedio. Sul selciato giacciono almeno novecento vittime. L’arrivo della coalizione internazionale non si farà aspettare e l’esito delle operazioni sarà durissimo. «Tutto l’immenso piano non è che un cimitero – ammonisce a caldo Barzini –. In questa caratteristica sta la fisionomia cinese. La Cina è il cimitero di una civiltà che è morta da mille anni…». Il corrispondente del Corriere della Sera è il primo in assoluto, il 28 agosto, a denunciare le carneficine e gli orrori compiuti dal corpo di spedizione. «Perdo la netta percezione di che cosa sia vera civiltà – prosegue –; tutto quanto credevo prima crolla e si dilegua sotto i colpi di nuove idee che mi tormentano ». Dinanzi ai suoi occhi si aprono saccheggi e vendette, eccidi e violenze. Per quanto al seguito dei fanti di Marina italiani, non rinuncia alla sua libertà. Denuncia senza remore le uccisioni perpetrate dai cosacchi. Non di ritrae nemmeno dall’offrire al suo lettore l’immagine di case e palazzi svaligiati dal contingente americano.

E a tutto questo prova a trovare una qualche ragione per dare senso all’osceno obbrobrio apparso al suo sguardo. «È la guerra che apre le valvole a tutta la perversità naturale che portiamo compressa in fondo all’anima – avverte nella corrispondenza del 31 agosto –. Quando l’ammazzare diventa un dovere assoluto, il rubare e il distruggere divengono diritti sacrosanti. Le basi del bene e del male sono capovolte. Le leggi che ci sembrano naturali sono sospese, il delitto diventa legale; tutto quanto di basso ed abbietto nell’animo nostro si credeva distrutto da tanti secoli di civiltà, di cultura, di educazione, in realtà non è che calato in fondo, lasciando tutto puro come il fango sotto l’acqua limpida. Alla prima scossa il fango viene su a vortici e intorbida tutto. Così soltanto si può spiegare quanto le truppe delle nazioni civili compirono e compiono in Cina». È il resoconto della prima missione presuntamente pacificatrice condotta in nome della civiltà dall’Occidente. Da allora a questi mesi del 2018 ne seguiranno molte altre. E le conseguenze della violenza prima o poi si faranno sentire. Lo sapeva già Luigi Barzini quando avverte gli italiani che «questo momento verrà forse rammentato come un sogno pauroso nel sonno millenario del popolo cinese, e che il buon Buddha lo mantenga ancora addormentato per un pezzo per la salvezza nostra».

Luigi Barzini
NELL’ESTREMO ORIENTE
Luni. Pagine 346. Euro 24,00

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