domenica 9 luglio 2017
Grande successo a Glyndebourne per “Hipermestra” del compositore secentesco Cavalli, molto eseguito all’estero (5 opere quest’anno da Ginevra a Parigi, da Amsterdam a Linz) ma quasi ignorato in Italia
L’“Hipermestra” di Francesco Cavalli a Glyndebourne (Tristram Kenton Glyndebourne)

L’“Hipermestra” di Francesco Cavalli a Glyndebourne (Tristram Kenton Glyndebourne)

COMMENTA E CONDIVIDI

«Tornate all’antico e sarà un progresso » diceva Giuseppe Verdi. Se il genio di Busseto avesse conosciuto l’opera di Francesco Cavalli vi avrebbe forse riconosciuto già raggiunta la meta alla quale aveva lavorato tutta la vita: un autentico teatro in musica, dove parola e suono si fondono in un declamato fluido, arioso, sempre espressivo, secondo tempi scenici perfetti. Scuote la modernità di Cavalli, il primo a trasformare a metà Seicento l’opera in un fenomeno italiano e europeo. Scuote la sua Hipermestra, capolavoro autentico come pochi, protagonista a Glyndebourne. Quello inglese è tra i principali festival lirici europei insieme a Aix-en-Provence e Salisburgo. Il titolo, andato in scena a Firenze nel 1658, è stato lo spettacolo che ha inaugurato il festival lo scorso 20 maggio e che ha chiuso ieri dopo tredici repliche in un teatro da 1.200 posti sempre pieno. Glyndebourne è uno dei centri di diffusione del barocco. Hipermestra celebra i cinquant’anni dalla pionieristica prima esecuzione in tempi moderni, qui, dell’Ormindo. Una produzione affidata a William Christie, alla guida dell’Orchestra of the Age of Enlightenment, e alla regia di Graham Vick, di nuovo a Glyndebourne dopo diciassette anni.

La storia, ispirata al mito greco, vede Danao, re di Argo, dare in sposa le cinquanta figlie ai cinquanta figli del proprio fratello Egitto, chiedendo loro di ucciderli la prima notte di nozze: una profezia gli aveva rivelato che da essi sarebbe giunta la sua morte. Obbediscono tutte tranne Hipermestra che ama, riamata, Linceo. Ma da lì, in una storia cosparsa di tradimenti, inganni e incomprensioni, deriverà la distruzione di Argo. Cavalli sfrutta tutte le possibilità del libretto di Giovanni Andrea Moniglia, ricco di idee poetiche e ben congegnato. I personaggi sono scissi da affetti contrapposti: amore (paterno, filiale, sponsale…), ragion di Stato, passione, giustizia, fedeltà muovono le fila. Cavalli amplifica il potere della parola con un recitativo che oscilla tra il declamato e il cantabile, sostenuto da una continua invenzione melodica (spesso di una modernità frastornante, come se tutto il futuro dell’opera fosse lì, in nuce) che a sprazzi si apre senza soluzione di continuità in arie e duetti, e da lì vi ritorna. Christie opta per un’orchestra ridottissima, in linea con la prassi dell’epoca. Su nove strumenti solo due sono violini, gli altri sono tutti per il continuo ma sempre variati per timbro e numero nelle combinazioni, così da aderire come un guanto al contenuto della parola. Più che il direttore, sono per questo i cantanti a dettare la linea. Il soprano Emöke Baráth, nel ruolo del titolo, ha voce cristallina. Il controtenore Raffaele Pe modella plasticamente un Linceo che scivola da una gioventù frivola al dramma della guerra alla pazzia (che Cavalli evidenzia alzando la già impervia tessitura vocale). Ricca di screziature espressive è Ana Quintans, che fa di Elisa, abbandonata dall’Arbante di Benjamin Hulett, una figura di primo piano, così come Renato Dolcini dona una patina scura e inquieta al suo Danao. Nel barocco gioco di contrasti trovano spazio personaggi comici tra cui spicca la cinica governante Berenice impersonata dal barbuto e spassosissimo Mark Wilde.

Vick punta proprio sui contrasti e sposta l’ambientazione in una Libia in cui si contrappongono modernità, lusso all’occidentale, lotte tribali, fondamentalismi. Il regista non lesina gli effetti da kolossal (si parte con il kitsch di una festa di nozze e si finisce tra macerie popolate di profughi passando per camionette in fiamme), e se i disastri della guerra sembrano essere le conseguenze dell’amore la presenza sullo sfondo del petrolio suggerisce il vero motivo del contendere dietro gli ideali. Una regia che sposa la genialità teatrale della musica di Cavalli, come nel quartetto finale. Se le coppie ricomposte si perdonano a vicenda e si giurano amore, la musica tinge di malinconia il lieto fine d’obbligo, come a dire quanto i fatti abbiano cambiato i personaggi. Vick amplifica l’effetto facendo rivestire le donne, fino ad allora autonome e volitive, del velo come in un atto di sottomissione.

L’Hipermestra di Glyndebourne è destinata a costituire un’edizione di riferimento per Cavalli. Un autore che in Europa è piuttosto eseguito. Restando al 2017, Leonardo García Alarcón ha diretto in gennaio a Ginevra una nuova produzione di Giasone, venerdì scorso la sua Erismena ha debuttato al Festival di Aix en Provence (spettacolo che a dicembre andrà a Versailles), mentre a ottobre sarà all’Opera nazionale di Amsterdam per Eliogabalo. Ad aprile Christophe Rousset ha diretto La Calisto all’Opéra di Strasburgo, mentre a settembre Linz allestirà La Rosinda. Per trovare una rappresentazione in Italia di un’opera di Cavalli bisogna risalire al 2014, quando L’Eritrea fu coprodotta dalla Fenice e dal Venetian Centre for Baroque Music per il festival estivo “Lo spirito della musica di Venezia”. Ed è un peccato perché è in Italia che Cavalli è tornato per la prima volta in scena nel 1952 al Maggio musicale fiorentino, con Giulini sul podio. La sua presenza la si riscontra fino agli anni 70-80 e poi è diminuita proprio quando iniziava ad apparire e maturare in Italia una generazione di musicisti, cantanti e musicologi attenta alle questioni filologiche. In qualche modo però non deve stupire. In Italia la struttura delle fondazioni liriche sarebbe in difficoltà con l’esiguità delle scelte strumentali di Christie. Temi in cui non sono estranee questioni sindacali. Per Cavalli a Venezia, nel 2014, fu creata ad hocun’orchestra del Festival e l’esecuzione avvenne a Ca’ Pesaro.

Se il Seicento nei nostri teatri è di fatto limitato al solo Monteverdi, è vero però che per il Settecento – dove la composizione strumentale di un’orchestra è prossima a quella moderna – si manifestano segnali interessanti. Pereira ha deciso di inserire nei cartelloni scaligeri un titolo barocco ogni stagione (quest’anno sarà il Tamerlano di Händel) affidando a Diego Fasolis la formazione dell’orchestra su strumenti storici. Anche Torino ha avviato un Progetto Opera Barocca, che nell’aprile scorso ha portato in scena L’incoronazione di Dario, primo titolo di Vivaldi a essere eseguito al Regio, riscuotendo la curiosità e il successo del pubblico. «In Italia c’è un problema di programmazione artistica – spiega Ottavio Dantone, sul podio dell’opera vivaldiana –. Molti direttori artistici hanno creduto che il gusto del pubblico fosse ancorato al repertorio da Mozart a Puccini, e a lungo hanno evitato l’opera barocca. Inoltre portare un’orchestra esterna aggiungerebbe costi, mentre vengono già pagati dei professionisti». Ma i segnali ci sono: «Qualcuno però ha capito che si possono presentare questi titoli anche in grandi teatri apparentemente non idonei. Le orchestre si stanno ringiovanendo, i nuovi musicisti sono curiosi. E così il pubblico si sta riappropriando di una tradizione. È un repertorio da cui non si può prescindere».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: