sabato 30 ottobre 2021
Al Teatro Coccia di Novara in scena l'unica opera del compositore ungherese con il direttore Alibrando che conduce nei meandri di un castello evocando l'infinita tragedia dei femminicidi
Una scena del “Il castello di Barbablù” di Bela Bartók in scena al Teatro Coccia di Novara

Una scena del “Il castello di Barbablù” di Bela Bartók in scena al Teatro Coccia di Novara

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Gli artisti sono anche profeti. Perché dicono prima quello che accadrà poi. Nei loro racconti, nelle loro storie (siano fatte di parole, di note, di forme pittoriche e materiche) mettono quei segni dei tempi che a noi che oggi ascoltiamo quelle parole, quelle note o vediamo quei tratti di colore è chiesto di decifrare. Per provare a capire meglio il nostro presente. Béla Bartók è (stato) un artista. E dunque un profeta. Perché ha raccontato nella sua musica e nelle sue storie qualcosa di noi. Del nostro presente. Lo ha fatto precorrendo i tempi. Leggendo in alcuni fermenti, in alcuni segni ciò che sarebbe successo. E cristallizzando questi fermenti, questi segni nella sua arte. La profezia di Bartók si rivela, lucida, anche inquietante nella sua unica opera di teatro musicale Il castello di Barbablù, composta nel 1911 e rappresentata nel 1918.

Libretto in ungherese di Béla Balázs dai contorni gotici, in perenne bilico tra simbolismo ed espressionismo (tra la fiaba di Perrault e il dramma di Maeterlink) nel raccontare di Judith, la quarta moglie di Barbablù, la donna della notte che arriva dopo quelle dell’alba, del mezzogiorno e del tramonto. Una lenta, inesorabile marcia verso la sua (e delle altre tre mogli) tomba. Una tomba dove è murata viva. O meglio – ed ecco la profezia di Bartók – cristallizzata nella sua estatica ed estetizzante bellezza. Idealizzazione (della donna, di quella donna…) che, oggi lo sappiamo, diventa pretesa di possesso. Motivo scatenante di una violenza (ce lo raccontano le cronache) che si vuole giustificare come “troppo amore”.

Eccola Judit. Bianca nel suo abito da sposa, immobile sopra il trono (bianco e geometrico, che richiama nella sua forma una lapide) di Barbablù. Eccola ingabbiata dai fili che lei stessa ha teso aprendo via via le sette porte del castello. Ultima, evocativa e chiarificatrice immagine dell’allestimento de Il castello di Barbablù diretto da Marco Alibrando e con la regia di Deda Cristina Colonna che il Teatro Coccia di Novara (che lo coproduce con la fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, dove è in scena, al Teatro Pergolesi, stasera e domani) ha messo in scena aprendo la sua nuova stagione. Scelta di coraggio perché Barbablù non è un titolo di quelli popolari.

Opera concepita per un grande organico orchestrale che a Novara è stata proposta in una trascrizione per ventitré strumenti, realizzata (per rispettare in buca le regole di distanziamento imposte dal Covid) da Paola Magnanini e Salvatore Passantino, studenti dell’Accademia Amo. Scommessa vinta grazie alla bacchetta di Marco Alibrando che dal podio restituisce intatte le atmosfere, i colori, le inquietudini del Castello grazie ad un minuzioso lavoro di concertazione. Il direttore siciliano, interprete di grande maturità e di spiccata e non comune sensibilità, scava nella partitura per trovare, con i ventitré musicisti (che sono quelli dell’orchestra del Coccia) il suono ideale per raccontare (con poco) il mondo (sonoramente ridondante e sterminato) di Barbablù.

Mondo nel quale Alibrando ci introduce con un suono nebbioso, che viene dal silenzio, sul quale si stagliano le parole del prologo, detto (da Giuditta Pascucci e Carolina Rapillo) in italiano e non nel più litanico, rituale, magico ungherese del libretto.Un suono nebbioso, stagnante che si dirada pian piano e lascia intravedere il Castello. Bianco, fatto di tulle e legno nella scenografia di Matteo Capobianco (che firma anche i costumi). Una struttura stilizzata che in qualche modo evoca quella di Castel del Monte, mausoleo impenetrabile nella sua apparente, leggera trasparenza.

Sette porte oltre le quali ci conduce Alibrando dando ad ogni scena, ad ogni scoperta di Judit un colore, un’atmosfera diversa: tagliente e metallica quella della camera delle torture, ipnotica quella della stanza dei gioielli, che diventa poi lussureggiante nel giardino, solenne nel descrivere il regno di Barbablù che, nell’intuizione registica di Deda Cristina Colonna, diventa la sala del teatro, illuminata a tutta luce. Ma poi arriva il sangue, che colora tutto. Arriva il brivido (letteralmente nella concertazione di Alibrando, lunare e siderale) del lago di lacrime.

Arriva l’ultima porta. Quella delle tre mogli. Vive, nel racconto di Bartók e Balázs, immobili, cristallizzate in un’inquieta, candida eternità con i loro volti ricamati nell’arazzo che cala dall’alto, sudario funebre per Judith immobile sul trono/tomba.E tutto torna nel buio iniziale. Un buio primordiale nel quale torna il Castello. Nel suono nebbioso dell’inizio, che Alibrando sfuma in un silenzio di solitudine. Quella di Barbablù. Che è Andrea Mastroni, voce e figura ideale per il luciferino personaggio. Inquieto, tormentato come la Judith di Mary Elizabeth Williams che si impone per una presenza vocale e scenica sempre efficace e misurata.

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