mercoledì 9 dicembre 2009
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Ha 36 anni e un passato remoto da muratore e pugile, un passato prossimo da attore e da regista. Di origini africane – padre algerino, madre sudanese –, nato nella Cité des Grésillons a Carrières-sous-Poissy (vicino alla capitale francese), Rachid Djaïdani vive un presente da scrittore. La sua opera prima, Boumkœur, risale a un decennio fa e ha rappresentato in Francia un caso editoriale, vendendo 300 mila copie. Nel 2004 esce Mon Nerf e due anni fa il suo terzo romanzo, edito sempre dalla parigina Seuil: si intitola emblematicamente Viscéral e approda in Italia grazie alla traduzione di Ilaria Vitali per Giulio Perrone editore. Il romanzo – ambientato in un luogo dove «la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è una barzelletta che circola sottobanco» – ha una scrittura asciutta e intensa allo stesso tempo, con registri passionali a tinte fosche, con larghe pennellate sui sotterranei del mondo che incutono timore e vanno esplorati con una guida esperta.  Per addentrarci nel "ghetto" della banlieue parigina, periferia animata quattro anni fa e nel marzo scorso da episodi di aspra guerriglia urbana, abbiamo incontrato Rachid alla Fiera della piccola e media editoria «Più libri più liberi», che si è conclusa ieri all’Eur. Sguardo dolce e tono determinato, il giovane scrittore si schermisce quando ripensa alle migliaia di copie vendute – «un caso fortunato» –, ma si accende appena si toccano i temi dell’emarginazione e della discriminazione dei migranti.Il titolo del suo libro fa penetrare il lettore nella «pancia» della banlieue parigina: cosa c’è in quelle viscere?«Innanzitutto l’amore. Poi ci sono le ferite, che non possono essere risolte a livello intellettuale perché molto profonde. Ci sono lacrime che non possono venir fuori perché ci obbligano a essere pietre. Ma c’è anche la speranza che ci fa vivere. E poi l’ambizione di andare contro le regole, oltre quello che si ascolta in tv. Insomma, la banlieue è una giungla in cui crescono anche dei fiori: lo immagino e lo vedo attraverso il protagonista Lies. Quando tutto intorno crolla, lui diventa il cemento».Che situazione vivono oggi gli abitanti della banlieue? Quel «grido» di cui parla il sottotitolo dell’edizione italiana si sente ancora, nel senso che qualcuno gli dà voce?«Il grido della banlieue è afono. Sembra che l’unico modo per farsi ascoltare siano le fiamme. La politica e le istituzioni non rispettano le persone che vi abitano. Siamo in tanti a dar voce a quel grido, ma veniamo etichettati come scrittori di periferia, in modo che la gente non legga i nostri libri». Le periferie del terzo millennio somigliano a quelle del passato, o si caratterizzano per qualche novità? «Quando si parla di banlieue, si superano i confini geografici. In passato le periferie erano caratterizzate dalla mescolanza di francesi, africani, arabi e resisteva il rispetto al loro interno. Oggi ci vivono soltanto i vulnerabili della città ed è come se ci fosse una polvere che all’improvviso può esplodere. Si tratta di volontà politica: tenere ai margini della metropoli i deboli».Lei racconta che il riscatto è possibile, che il ghetto non può determinare in assoluto il fallimento di un’esistenza. Lo dicono alcuni dei suoi personaggi... «C’è una forza che vive nella banlieue, una vitalità e una freschezza straordinarie. Fino a quando la Francia non si renderà conto che non può spezzare le ali a questa gioventù, questa energia le si ritorcerà contro e non potrà mai diventare quello che è, cioè un grande Paese. Per ogni ragazzo che ne esce fuori, ce ne sono molti altri che restano nell’oblio. Alcuni, africani o arabi studiano, ma poi il fatto di avere un nome straniero li penalizza e li relega comunque ai margini. Quindi molti si scoraggiano e pensano: perché fare tanti sacrifici, andare all’università, se poi si resta emarginati? Questa situazione genera una grande frustrazione e una mancanza di comunicazione».Ha inserito un glossario alla fine del volume: quale lingua bisogna conoscere per «entrare» nelle banlieue?«Per prendere coscienza della scrittura di banlieue e fare in modo che migliori in qualche modo la realtà, bisogna prendere coscienza delle ferite che sono al suo interno; si può andare nella periferia per farlo, oppure si possono leggere libri, visitare mostre su questo problema. Si tratta di una specie di grotta, di un luogo opaco in cui entrare. Bisogna incontrare il dolore e la sofferenza, che hanno un linguaggio universale». La sua è stata definita una scrittura di frontiera, di confine. In che senso lo è?«Ho lavorato molto per arrivare a questo tipo di scrittura: il dolore fa parte della mia vita, è mio. La scrittura è come se non mi appartenesse, se fosse un dono che non si spiega. In Francia alcuni critici affermano che scrivo come parlo; se fosse così, avrei pubblicato già diverse enciclopedie... Non ho un codice di riferimento: mi considero uno scrittore nella categoria dell’hip hop. Ho ascoltato il rap, la strada e qualcuno dice che ho infranto tutte le regole. Altri hanno accostato il mio stile a quello di Faulkner, ma non l’ho mai letto. I miei preferiti sono Gibran, Hesse, John Fante». I suoi lettori sono trasversali?«Mi rende felice sapere che molti giovani hanno cominciato a leggere i miei romanzi perché hanno riconosciuto in me e nei miei personaggi qualcuno che somigliava a loro. Ma sono rimasto molto più sorpreso e colpito quando nonne e mamme, anche della borghesia francese, hanno comprato i miei libri e mi hanno fermato per strada per dirmi che gli erano piaciuti».
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