La Casa delle bambole allestita al Pulp di Pontedera
C’è stata un’epoca più della nostra in cui il gioco abbia occupato così tanto tempo nella vita degli uomini? Gioco d’azzardo e sport, quiz televisivi e mondi in miniatura, lunapark, videogiochi e cellulari: quante ore al giorno trascorrono nel “divertimento” molti di noi, individui inseriti in società dove l’entertainmentè una industria che macina speranze e investimenti in un tritacarne che spesso lascia più tristi e insoddisfatti? José Bergamín, che aveva una coscienza acuta della natura umana, ha dedicato alcune pagine a descrivere l’origine e il significato del “divertimento”: divertere è un allontanarsi dalla realtà, un palliativo contro la noia, e la noia è sintomo di una inclinazione mortifera. E Bergamín, da anima spagnola, conclude che non c’è niente di più noioso che divertirsi. Parole perfette per il nostro tempo, e per questo anche inquietanti. Eppure il gioco e il giocattolo sono antichi come l’uomo; non è finzione ma realtà sacra e rituale. Daniela Fonti – che cura con Filippo Bacci di Capaci la bella mostra allestita al Palp di Pontedera sul gioco, il giocattolo e l’arte dall’Italia unita all’Italia del boom (che forse ha cominciato proprio all’epoca a disunirsi: la ricchezza separa e crea dislivelli sociali che possono essere fisiologici oppure profondamente ingiusti), nota che «quando si vede giocare qualcuno, nell’arte dell’Occidente, è quasi sempre un adulto». E questo fin dalle pitture vascolari greche del V secolo a.C. La studiosa evoca quella frase acutissima di Benjamin secondo cui «l’infanzia c’è solo se si è adulti: l’infanzia non è mai per il bambino. Il bambino ha il mondo, l’adulto il tempo ». In filigrana si può cogliere un sentimento tragico non lontano da quello descritto da Bergamín. L’epoca di questi pensieri, d’altra parte, è la stessa: anni Trenta. Aleggiava una gran energia vitale, ma stava per iniziare una carneficina.
La mostra è accompagnata da un catalogo dove in alcuni saggi si dà conto delle idee e dei valori simbolici che il gioco ha generato. La mostra ha un titolo che strizza l’occhio al nostro tempo: La trottola e il robot. Si ferma proprio alle soglie della robotizzazione, e questo dopotutto è un bene. In definitiva, quel che vediamo è una composita scenografia di giocattoli, giochi e opere dei maggiori artisti italiani dell’Otto e Novecento, che rappresenta la Casa dei balocchi (e qui ci sarebbe stato bene un dipinto di Savinio con le sue tipiche montagne incantate fatte di balocchi, ma dobbiamo accontentarci del pur bello ma meno pertinente Gente perbene (I genitori) il cui aspetto burlesco ha certamente a che fare con lo sguardo con cui un bambino vede il mondo degli adulti). Niente paura. A parte la bellezza dell’insieme, la mostra offre almeno una decina di opere che valgono il viaggio a Pontedera. Non so perché – ognuno di noi ha trattenuto della propria infanzia alcune immagini che riemergono senza preavviso – ma io ho provato un certo trasporto per la Bambina sul cavalluccio di Bruno Saetti, un’opera del 1932, se vogliamo anche insolita per l’artista; mi ha ricordato un bellissimo dipinto di Varlin che ritrae anch’egli la figlia sul cavalluccio, dove il sentimento dell’infanzia è al tempo stesso meraviglioso e inquietante. Mettendo a frutto Benjamin, la Fonti scrive che «il bambino abita lo spazio simbolico da padrone», cioè con la sicurezza di chi deve diventare adulto. E la casa di bambola è più vera del vero, iperrealista e carica di valore simbolico, perché è il distillato programmatico che si solidifica in un oggetto “perfetto”.
La casa delle bambole allestita nella sala più grande è articolata attorno alla stanza di Pinocchio eseguita nel 1928 da una industria veneziana, cui s’aggiungono un tappeto con un motivo di gattini realizzato da Balla nel 1932 (nella sala accanto anche un suo meraviglioso paravento del 1918 con animali e soggetti ludici), una Mandriacon animali in legno di Duilio Cambellotti del 1915; la tavola Giocattoli dipinta a tempera da Casorati nello stesso anno; otto rinoceronti in legno di Depero, e un suo bellissimo Orso (verso la conclusione ritroviamo l’artista con un teatrino animato da un gatto nero, tre topi bianchi, tre farfalle, una gallina e una scimmia, che davvero ci ricordano quale genio fosse questo futurista così avanti con l’immaginazione da riuscire a sembrare antico anche nel gioco). I giocattoli in legno, anche se raffinati e moderni come quelli di Depero, mi ricordano che soprattutto nelle famiglie più povere i padri scolpivano cavallucci e altri animali per i loro figli. È vero – come nota la Fonti – che nell’iconografia che conosciamo Gesù Bambino non gioca quasi mai, ma possibile che il falegname di Nazareth abbia resistito alla tentazione di costruire per suo figlio un cavallo a dondolo o un altro oggetto ludico? E del resto ancora oggi dai Paesi del Sud Est asiatico arrivano in Occidente dentro container centinaia di animali di legno (in genere la vacca in quanto animale sacro), dotati di ruotine o di altri supporti, opere artigianali vendute per quattro soldi ai mercanti di materiale etnico. Così accade dall’Africa e anche dall’America del Sud, dove cioè il giocattolo fatto in casa è il testimone delle culture più povere.
È vero che la raffigurazione di bambini e ragazzi nell’arte è cominciata abbastanza tardi: Gesù e Giovanni Battista sono stati forse gli unici privilegiati (salvo in quadri dove avviene il miracolo della guarigione di un bambino o nell’iconografia della Madonna del soccorso che strappa a satana il figlio di una donna che in uno scatto d’impazienza l’aveva “mandato al diavolo”). I giocattoli però compaiono ben prima nella storia umana. Celebre il caso di Crepereia Tryphaena, fanciulla diciottenne del II secolo, nella cui tomba rinvenuta a fine Ottocento durante gli scavi per le fondazioni del Palazzo di Giustizia di Roma, venne trovata una bambola in avorio, snodabile e assai ben fatta ora conservata ai Musei Capitolini. È vero anche che gli automi sono un portato dell’epoca moderna, come l’anatra di Vaucanson che digeriva e defecava, curioso parto fisiologico della mente illuminista; ma si deve ricordare che non si sarebbe arrivati a questo senza i filosofi arabi che XIII secolo preservarono la memoria dei trattati di meccanica di Erone Alessandrino elaborando alcuni automi il cui fine era, forse con una prospettiva inedita, la meraviglia e il sentimento ludico.
Nei dipinti di Gioacchino Toma, di Giuseppe Barison, di Francesco Gioli, vere finestre sugli interni delle case italiane borghesi dell’epoca, vediamo pargoli che giocano sui pavimenti di casa, si rotolano su tappeti; solo qualche decennio più tardi i due fratelli nell’ora di studio di Elisabeth Chaplin già mi richiamano i più ambigui e pruriginosi ragazzi di Balthus. Rarefatto e quasi metafisico, modernissimo nel tratto rapsodico e laconico, l’Interno di Lorenzo Viani del 1927 (davvero insolito rispetto al tono cupo del pittore, come insoliti sono i suoi acquerelli allucinati nel bianco di bambini sui banchi di scuola, che aveva eseguito un decennio prima). Fatta l’Italia si dovevano fare gli italiani. E così in molti quadri compaiono ragazzi che studiano, che leggono, che scrivono. Educazione: osservando la compostezza e la serietà dei ritratti difficile considerarlo un gioco, era anzi la serissima scommessa di una nazione in fieri, già preda della farsesca autarchia fascista. È un’infanzia che forse non ha più i rammendi nei calzoni, come in certe scene d’Ottocento, che va in spiaggia e gioca con le conchiglie (il bellissimo olio di Sartorio del 1926), che poetizza la propria condizione “umile” come nel Cheval blanc di De Pisis del 1928 o coltiva la scarna terragna semplicità di Pirandello dei Sassi del 1939.
Diciamo la verità: guardando queste opere vien da pensare che la tecnologia digitale fa giocare di più gli adulti, ma li ha svuotati del bambino che ancora c’era in loro. Sarà per questo che il gioco sta diventando sempre più una patologia?
Pontedera, Palazzo Pretorio - "La trottola e il robot", fino al 22 aprile