domenica 8 ottobre 2017
La vita culturale nell’area della ex Jugoslavia è stata a lungo unitaria, ma dopo la frantumazione politica si è frammentato e perduto anche un patrimonio intellettuale particolarmente ricco
Balcani. Le macerie della letteratura
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Una lingua comune per gli abitanti di Croazia, Serbia, Bosnia, Erzegovina e Montenegro, e una comune letteratura, hanno una prima organizzazione nel 1850. «Il 28 di marzo del 1850, a Vienna, molto probabilmente nell’appartamento di Vuk Karadžic, oppure nella celebre taverna di Gerlovic in Baumarkt, otto jugoslavi (essi stessi si diedero tale nome) si riunirono e firmarono un manifesto con il quale invitavano gli slavi del Sud ad accettare il cosiddetto dialetto meridionale come loro lingua letteraria. I sottoscritti, considerato che un unico popolo dovrebbe possedere una letteratura unica, e biasimando la situazione odierna per cui la sfera delle lettere è lacerata non soltanto in merito all’alfabeto, ma anche nella grammatica, si sono radunati in questi giorni...” (Sinan Gudževic, La casa viennese serbocroata). La cosa interessante è che nel testo dell’accordo non si dà nome alla lingua comune, non sono usati aggettivi come “serba” o “croata” ma si parla di “nostro popolo”, “nostra letteratura”» , sottolinea Rajka Glušica dell’Università del Montenegro.

Vienna, poiché i libri vengono pubblicati nella capitale Biedermeier e tutti studiano nella capitale dell’impero, è il laboratorio della ricerca e del richiamo alle radici, del riscontro identitario, della invenzione della tradizione. È l’Ottocento dei popoli, le insurrezioni del ’48 si preparano nelle stamberghe viennesi. Franse Prešeren (1800-1849), il bardo delle terre slovene e padre di quella letteratura, alza il calice in Zdravljica, “Brindisi”: «Fratelli, per chi vogliamo alzare per primo / questo lieto brindisi! / Protegga Iddio la terra nostra / e tutto il mondo sloveno / e i fratelli, / quanti siamo / d’illustre madre figli! ». Il poema epico e tragico montenegrino sulle guerre di liberazione dall’Impero ottomano, Il serto della montagna del principe- vescovo ( vladika) Petar Petrovic-Njegoš (1813-1851) esce in libro nel 1848 a Vienna. I versi del Serto («Umana peste, o Turco, / Ti disperda l’Eterno!... che turbar ti sforzi / Colla perfidia tua, queste scoscese / Povere balze'), scritti nella valle della piccola capitale Cettigne, sono il testo principale alla soglia di una letteratura dei Balcani e riferimento a una lingua comune. Il poema di Njegoš è un testo oggi dannato dal suo trasferimento strumentale nell’epica del nazionalismo panserbo. I versi del Serto della montagna accompagnati dal suono monocorde delle rozze guzle hanno celebrato le stragi delle popolazioni musulmane lungo la Drina nell’ultima guerra.

Torna invece sulla scena letteraria e identitaria Mula Mustafa Bašeškija detto Ševki, l’“Illuminato” (Sarajevo 1731-1809). Alla fine dell’assedio di Sarajevo (1996) gli viene dedicata – con scarso successo – la “Titova” (via di Tito), arteria principale della città. Bašeškija, prima calderaio e poi scritturale – affitta una bottega sotto la Šahat-kula ( Torre dell’orologio) in Bašcaršija e si dedica scrivere lettere, contratti, suppliche, denunce – è il cronista e lo storico di Sarajevo. Scrive in turco cronache annuali in cui annota avvenimenti, nascite, morti, stagioni, sciagure, feste: sono i Ljeto- pis (“Annali”) base della letteratura moderna bosniaca, rappresentazione di personaggi, caratteri, costumi, mentalità della città pluralista. ( Anno 1759-1760: «A Sarajevo sono giunti mille cammelli che portavano munizioni; Il 29 maggio si è diretto su Mostar il vali [capo amministrativo] della Bosnia Mehmed-pascià Kukavica perché gli consegnassero tre uomini. Invece quelli di Mostar hanno attaccato il pascià e ucciso tre-quattro uomini della sua scorta; Mehmed- effendi Fojnicanin è diventato muftì. Ma il vecchio muftì non gli ha voluto cedere il posto, anzi ha fatto una petizione e ha addirittura aizzato contro Muhamed-effendi i propri amici; c’è stata una grande abbondanza di ciliegie e frutta secca. Defunti: Ahmedaga Jebiciganka [Fottizingara]; Delimustafic, riccone; Rejsovic, strangolato per una donna di malaffare; Un povero; Vilajetovic, assassino, a sua volta ammazzato; Grdo, macellaio, suicida; Un negoziante della Pasja Mahala [via dei cani], morto per consumo di oppio; Avdi-baša, orafo, sapeva parlare dolcemente, morto per peste...»).

Un disperante Ottocento, secolo di guerre e insorgenze sociali, di un accidentato cammino identitario guidato dalla Serbia. Ottocento delle predicazioni: fratellanza tra gli uomini, giustizia... Qui prende forma il primo corpus, si radica l’origine di una moderna letteratura balcanica: lo slavone Branko Radicevic (1834-1853) poeta romantico con accenti di realismo sociale; il serbo Milovan Glišic (1847-1908); il dalmata Silvije Strahimir Kranjcevic (1865-1908); lo sloveno Ivan Cankar (1876-1918)... Vite brevi spese sulla pagina scritta e su un ardente progetto nazionale, oggi completamente ignorate nelle scuole e nei libri delle varie repubbliche balcaniche. «Così anche il secolo inutilmente è passato», canta Abdulah Sidran nel Recital sulla tomba di Kranjcevic. Il fatto è che tutto il pensiero, l’ansia di equità sociale, il dolore esistenziale per le ingiustizie e la povertà scompaiono dall’odierno orizzonte culturale della penisola balcanica. Piuttosto, qui, territori offshore, immaginario che proietta le vite di ognuno nella deboscia senza freni del turbocapitalismo.

Nei suoi anni finali il secolo si apre ai tre grandi di una letteratura ormai jugoslava: Ivo Andric (1892-1975), Miroslav Krleža (1893-1981), Miloš Crnjanski (1893-1977). Andric e Krleža li troviamo, nel 1954, nella definitiva ratifica degli “Accordi di Novi Sad” per l’unica lingua. Autori tra loro diversi, li accomuna quel brulichio di presenze nella narrazione, quel particolare teatro collettivo di piccoli contadini, mercanti, bottegai, funzionari, soldati, clero di provincia, coro di fondo, tessuto connettivo della pagina. Scrittori danubiani, delle grandi pianure: la Posavina lungo la Sava, la Pannonica, la Podrinja lungo la Drina. Una grande letteratura: La cronaca di Travnik, Il Dio Marte croato, Migrazioni... Libri privi di servitù edificanti il potere politico, efficaci di realtà, libri della storia di un Paese, della società e cultura della rifondata Jugoslavia. Il libri di questi autori sono in oblio negli stessi territori originari. Così capita ad Andric in Bosnia, quasi del tutto censurato, eppure è di Travnik la città dei pascià e del «piccolo caffè di Lutvo».

A Sarajevo durante l’assedio il leader dei croati unitari, Stjepan Kljujic, teneva nascosta in cantina la statua di Krleža dello scultore Ivan Mestrovic (1883-1962) il “barbaro”; Crnjanski è pubblicato da noi e ignorato nella ex Jugoslavia. E nessuno osa più riunire questi autori in una letteratura nazionale. Poi Tin Ujevic (1891-1955), Edvard Kocbek (1904-1981), Meša Selimovic (1910-1982), Mak Dizdar (1917-1971), Aleksandar Tišma (1924-2003), Danilo Kiš (1935-1989), poeti e narratori che producono la letteratura dell’angoscia, delle deportazioni, delle oppressioni politiche, nella fascia tragica delle due guerre mondiali. È l’ultima issue. ©

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