martedì 13 febbraio 2018
Il bilancio trionfale non può far dimenticare gli interrogativi sollevati da un festival in cui parole e musica hanno mostrato un desiderio di mondo nuovo e una richiesta di responsabilità civile
Baglioni & C. Umiltà, talento e una domanda al Paese reale
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Lasciamo Sanremo con tanta buona musica ancora nelle orecchie e una sensazione amara: Lo Stato Sociale non ha mai trionfato nel nostro Paese, poteva farlo sul palco dell’Ariston? La risposta al Poster di Claudio Baglioni che qualcuno ha già strappato via, ma con rimpianto. Claudio esce dalla kermesse canora sempre più Divo e un po’ meno Don alla resa dei Conti. Intesa non come Conti Carlo (direbbe la Fracci di Virginia Raffaele, ribadiamo: strepitosa nella sua performance sanremese), ex imperatore del precedente triennio che è stato quasi oscurato, e non solo per gli ascolti, schizzati al 58% con punte da oltre 12 milioni di telespettatori. Cifre baudesche (62%, con 17 milioni) che profeticamente nella sua apparizione dal pulpito, con la lettera di Pippo a Sanremo, aveva detto a Baglioni: «Claudio, tu supererai il mio record».

Il record di Baudo ancora resiste ma siamo nell’era dei trecento canali tematici e se mettiamo assieme i dati di ascolto delle cinque serate del 68° Festival della musica a baglionetta si arriva a 60 milioni di “telesanremati”. Il Paese intero si è sintonizzato almeno un minuto su Baglioni, e Claudio, con la sua musica, con le parole di Pierfrancesco Favino e il coltellino svizzero televisivo della Michelle Hunziker, ci è parso il ritratto autentico e migliore dello Stato reale. Uno Stato che sul fronte del palco ha ancora la possibilità di vivere cinque giorni a riparo dai vecchi e nuovi tromboni della politica, dalle tante piaghe di un popolo che è stanco del brutto e della mediocritas e che vuole sognare, perdersi nella bellezza e cantare tutti in coro, anche se non si è dei baglionianiQuesto piccolo grande amore. Il problema è che cinque giorni di bellezza e di legittima normalità non ci tengono al riparo da un’intera stagione di ordinaria follia, dalle incertezze come il Ballo di Ultimo.

E che Ultimo possa diventare il primo, può accadere soltanto a Sanremo e purtroppo quasi mai nel Paese reale, dove come ci insegna Lo Stato Sociale il dilemma amletico è diventato: «Vivere per lavorare, o lavo- rare per vivere?». Il lavoro che non c’è, specie per i giovani, è il grande male che affligge le nuove generazioni, dalle province del Nord fino a Scampia, omaggiata da Enzo Avitabile e Peppe Servillo, per la “giuria di qualità” di Avvenire, i veri vincitori (unico 9 dato nelle nostre pagella). Il coraggio di ogni giorno cantano Avitabile-Servillo, e quello spesso manca a tanti, in una società condannata alla devozione di “san Precario”. Ma la generazione, la tv e la musica «antica» ma ancora socialmente utile ai giorni nostri, di Claudio Baglioni, da Sanremo ha creato un ponte di nuove speranze. Un passaggio assai visibile che origina dal passato ma che può ancora portarci lontano, nel futuro. L’importante è che le generazioni tornino a parlarsi fra di loro (splendidi i dietro le quinte tra i Kolors-Ornella Vanoni o l’ottuagenaria ballerina Paddy Jones e Lo Stato Sociale), a comunicare con tutti i mezzi a disposizione, social compresi.

Non si può negare, con quel pizzico di amarezza che riponiamo nella valigia del ritorno, che i social hanno determinato la vittoria di Ermal Meta e Fabrizio Moro. Al di là dei regolamenti che, anche nello stato reale di Sanremo sono fatti per essere aggirati, il miniscandalo dell’autocitazione del ritornello «Non ci avete fatto niente», ha alzato un polverone mediatico che alla fine ha condotto al successo dell’ombroso duo. Chi semina post spesso raccoglie consensi e le tribù di Meta-Moro ne hanno raccolti talmente tanti che alla fine il titolo della vigilia, cronaca di una vittoria annunciata, si è puntualmente materializzato. La canzone è bella e piace, così quello che stava per diventare un incubo per i tre autori (Febo-Moro-Meta) alla fine si è trasformato in sogno. Del resto il divo Claudio insegna che Il sogno è sempre. «Il sogno ora finisce e non finisce niente e ancora avremo questo stesso cuore dentro il cuore della gente...», canta Baglioni. I cuori si sono riscaldati con fra Pierfrancesco che su indicazione di don Claudio ha portato al Festival la «parola» buona e giusta.

Favino ha dimostrato tante cose sul palco dell’Ariston e l’apice l’ha toccato con l’interpretazione magistrale de La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès. Si è commosso Favino - denunciando con quel testo l’esclusione dei migranti - e ci ha commossi. Ma il buon Pierfrancesco ci ha soprattutto stupiti e divertiti e l’ha fatto, con la complice Hunziker, secondo la dottrina baglioniana: con ironia, con grazia, con umiltà e con la consapevolezza che il gioco è bello quando è corto. Quindi, caro direttore Teodoli comprendiamo l’urgenza di riempire i palinstesti Rai con talenti veri, ma abbandoni il pressing per offrirgli subito una prima serata. Se Favino accettasse vorrebbe dire alzare pericolosamente l’asticella («Più di Sanremo che c’è?», ha ribadito l’attore) e portarlo a giocare fuori ruolo. Piuttosto, sceneggiatori, registi italiani, iniziate a scrivere film in cui Favino possa essere mattatore sul grande schermo, e basta con questo cinemicchio fatto di storie corali in cui gli attori italiani ai nostri occhi di spettaroi appaiono in centomila e quindi nesssuno.

Ma siamo usciti dal villaggio sanremese, quello ripopolato finalmente solo di musica e parole. Caro don Claudio, la benedizione del suo san Felice da Cantalice ha avuto l’effetto auspicato. Ora Baglioni, Avrai il tuo tempo per pensare, carezze per parlare con i cani e cantare liberamente anche la «vacca disse al mulo». Perciò, pensaci bene a un Sanremo bis. Via la maschera: dopo “sette giorni di te e di me” il baglioniano del ’69 (come il prossimo Festival) saluta e se ne va sulle note di Solo: «E chissà se prima o poi se ogni tanto penserai che io solo... resto qui e canterò solo, camminerò solo, da solo continuerò».

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