sabato 24 aprile 2010
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Aprile da azzurro tenebra 1910. Anzi, ancora per niente azzurro, perché la Nazionale di calcio non era nata, nonostante la novità del football avesse valicato le Alpi dal 1887, importata da Londra dal mercante Edoardo Bosio e poi sbarcata al porto di Genova con il dottor James Spensley, scout, medico dei camalli e capitano del primo club italico «per soli inglesi», il Genoa cricket and football club. Aprile bianco piuttosto, il colore dominante del calcio che si giocava “solo” al Nord, quello delle casacche dei temerari giocatori della Pro Vercelli. I campioni d’Italia in carica, i vincitori nel biennio 1908-1909, che per le trasferte si muovevano pedalando in bicicletta, lasciandosi le risaie alle spalle e arrivando fino al mare di Genova per sfidare il Genoa di Spensley e i loro cugini dell’Andrea Doria, in quell’aprile stavano portando a termine il loro terzo capolavoro. Nel campionato, a nove squadre, la “Pro” aveva lasciato dietro di sé la Juventus e all’ultima giornata si ritrovava a pari punti con l’Inter. Ma lo spirito di patria del portiere Innocenti, Milano II e dei fratelli Fresia era talmente forte che gli fece dire «obbedisco», quando l’esercito li chiamò a prendere parte a un torneo militare, fissato per l’inopportuno 24 aprile. Quattro giocatori imprescindibili. Specie quei due, Vincenzo e Attilio Fresia, quest’ultimo autentico gioiello: fu il primo "affare" di calciomercato, quando ancora non esisteva (passò dall’Andrea Doria al Genoa per quattrocento lire, una fortuna all’epoca) e poi attraversò la Manica per andare a giocare nel campionato inglese, nel Reading. Un passaggio molto complesso che richiese una serie di rimandi burocratici tra la nostra giovane Federazione Giuoco Calcio, nata nel 1898, e quella londinese, più smaliziata e non per niente madrepatria del football. La Federcalcio anche in quell’aprile di cento anni fa combinò un pasticciaccio ai danni dei vercellesi. Decise che lo spareggio per l’assegnazione del titolo nazionale si sarebbe inderogabilmente disputato il giorno 24, ma sul campo della squadra piemontese. Il braccio di ferro ingaggiato per far slittare quella sfida impari non sortì effetti e così il patron Luigi Bozino, stizzito, decise che i suoi ragazzi avrebbero affrontato lo stesso l’Inter, al Campo della Fiera di Vercelli, schierando per protesta la “quarta squadra”: quella dei ragazzini dagli undici ai quattordici anni. Una messinscena, arbitrata dal milanese Umberto Meazza, che si risolse con un punteggio che per le cronache dell’epoca oscillava tra le nove e le undici reti dell’Inter, contro le tre messe a segno dai baby della Pro, in cui spiccò insieme a Mario Ardissone l’audace undicenne Alessandro Rampini II, che pare superasse di pochi centimetri il metro d’altezza.Altro che Calciopoli: se c’è uno scudetto che l’Inter dovrebbe rimettere sul tavolo, forse sarebbe proprio questo, perso da una Pro Vercelli che subì pure la beffa della squalifica di tutti i suoi tesserati, i quali non vennero convocati per il battesimo della Nazionale di calcio italiana. Nessuno dei bianchi di Vercelli infatti fu ammesso alla prima sfida internazionale di una nostra selezione, l’amichevole contro la Francia, due settimane dopo, il 15 maggio 1910. Per non sfigurare dinanzi ai francesi e le confinanti Svizzera e Austria che la loro nazionale l’avevano messa in piedi da un pezzo, la Federazione italiana guidata dal ragioniere milanese Luigi Bosisio, con segretario generale Arturo Baraldi che di lì a poco avrebbe abdicato in favore del “tenente” degli Alpini Vittorio Pozzo (il ct che portò l’Italia al trionfo Mondiale del ’34 e del ’38 e all’unico oro olimpico ai Giochi di Berlino 1936), organizzò una commissione tecnica completamente meneghina che come allenatore incaricava l’avvocato Umberto Meazza.Era il condottiere giusto, in quanto scrupoloso e profondo conoscitore di leggi e regolamenti, e non a caso sarà il fondatore l’anno successivo della prima Associazione arbitri italiani. Ai suoi ordini e quelli della commissione tecnica il 5 maggio a Milano si presentarono all’allenamento i 25 convocati. Fuori i bianchi di Vercelli, la scelta ricadde su tutti atleti che militavano nelle squadre che giocavano all’ombra della Madonnina: l’Internazionale, il Milan, l’Us Milanese e l’Ausonia Milano. Solo tre gli “stranieri” scesi alla Stazione Centrale. Francesco Calì detto “Franz” che vantava trascorsi in Svizzera; tornato in Italia si era accasato a Genova, prima con il Genoa e poi nell’Andrea Doria, società dalla quale proveniva quando gli verrà affidata la prestigiosa fascia del primo capitano della Nazionale. L’altro “extramilanese” era Domenico Capello, del Torino, che si presentò con il compagno di squadra Enrico Debernardi, scartato dalla rosa dei titolari dopo l’allenamento e richiamato poi in campo a sostituire il milanista Franco Bontadini, infortunato. Con Debernardi gli undici eroi nazionali erano al completo in quella formazione che dinanzi ai quattromila spettatori che affollavano le gradinate dell’Arena, alle 15,30 del 15 maggio fecero il loro ingresso. Schierati in mezzo al campo per la foto di rito, indossavano la maglia bianca e i calzoncini spaiati, chi neri chi bianchi. Virgilio Fossati, il primo interista a vestire quella casacca dal colletto inamidato e quasi elegante della Nazionale, si allacciò il bottone e si passò una mano sui baffi che in quella squadra sfoggiavano anche Calì, Varisco e Debernardi. A unire questi nostri pionieri del calcio che dovevano vedersela con i già rodati transalpini erano appunto i baffi folti o più o meno accennati e le origini umili di gente nata sotto le Alpi, figli di operai e contadini della Bassa per i quali il calcio era ancora e soltanto un gioco. Ma anche un modo per catturare le attenzioni delle signorine ai caffè del Duomo: perché il calcio, come recitava persino l’intitolazione dei primi club, allora era “Amore e ginnastica”; e quella poesia si ritrovava a Ferrara dove, tre anni prima di quella sfida con la Francia, era sorta la Spal: acronimo di Società Polisportiva Ars et Labor. E nell’arte del pallone Calì e compagni erano già avanzati, al punto che quella partita dalla vigilia un po’ tesa, si sciolse in goleada. Il primo storico gol della neonata Nazionale dopo appena tredici minuti dal fischio d’inizio dell’arbitro, l’inglese Goodley, lo mise a segno Pietro Lana che nel 1908 era stato tra gli “scissionisti” del Milan che andarono a fondare l’Inter, per poi ravvedersi e tornare a vestire il rossonero. Il raddoppio fu un lampo di gioia di Fossati, l’eroico che da lì a poco sarebbe passato da un campo di calcio a quello di battaglia del fronte orientale, cadendo sotto i colpi degli austriaci ad appena ventinove anni. Poco amaro, per lui in trincea nel ’18, sarebbe stato il ricordo di quelle due reti dei francesi Sellier e Ducret che avrebbero potuto riaprire la partita, messa al sicuro dalla tripletta di Lana. In mezzo, il gol di Giuseppe Rizzi, centrattacco del Milan che la stagione seguente avrebbe sfidato la Pro Vercelli colpo su colpo: ma i bianchi, per un solo punto, alla fine avrebbero strappato finalmente quel terzo legittimo e meritato scudetto. Con gli altri due successivi, senza l’intermezzo “scandaloso” interista, per la Pro sarebbe stato record assoluto nella storia del nostro calcio: sei tricolori di fila. Dieci giorni dopo intanto, quella stessa Nazionale andò spavalda in visita dai maestri magiari, ma tornò a casa con le ossa rotte: a Budapest perse 6-1. Mancava decisamente il “blocco” dei bianchi di Vercelli che, terminata la squalifica, rientrarono per la rivincita contro gli ungheresi, il 6 gennaio 1911. Quel giorno, sei undicesimi erano giocatori della Pro e per la prima volta la Nazionale si vestì d’azzurro, omaggiando la bandiera dei Savoia. L’Ungheria si impose ancora, di misura (1-0), ma quello fu il primo pomeriggio veramente azzurro del calcio italiano.
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