lunedì 27 febbraio 2012
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Nel “globo globalizzato” esiste ancora l’avventura? Che non sia la parodia che chiamano turismo, sostituto di massa delle esplorazioni e delle scoperte geografiche e dei radicamenti coloniali? Che non sia la guerra, oggi per di più opera di volontari, volontari – osiamo dirlo – della morte di altri e della propria? Che non sia la tragedia delle migrazioni, che però a volte è anche vera e grande avventura, l’unica di portata epica ed epocale, che in modi antichissimi e attualissimi continua a confrontarci con la disperazione degli adulti (cacciati mal volenti dalle loro case e tradizioni) e con l’irrequietezza dei giovani in cerca sempre di un nuovo con cui confrontarsi, da cui apprendere, in cui insediarsi? Avventura è una parola abusata. L’avventura è l’avventura era il titolo di un brutto film francese di molti anni fa, una tautologia insignificante che diceva niente e giustificava tutto. Meglio allora fidarsi dei dizionari, che definiscono l’avventura come “un avvenimento singolare e straordinario” nella veste di “un’impresa rischiosa e affascinante", di “una situazione rischiosa e problematica in cui ci si viene a trovare”.L’avventura è qualcosa che rompe un ordine nella vita di uno o più individui – e si presume che la rottura di un ordine sia inerente alla sua natura: l’avventura esclude la routine, e se può contemplarla è soltanto come il rimedio ossessivo a una minaccia esterna ossessiva. Per esempio, l’insediamento in territorio nemico, nel “deserto dei tartari”, sulla “riva delle Sirti”... Non rompe un ordine l’avventura che ci è invece offerta in grande abbondanza dal sistema dei media, da film e da romanzi, da fumetti e da giornali – invadenti procacciatori di avventure vicarie, solo fantasticate, e se è vero che la mente può muoversi in territori infinitamente vari, è soprattutto vero che essi sono infinitamente drogati e in qualche modo malati, escludenti dal flusso della realtà e dell’esistenza. I “viaggi intorno alla propria stanza”, le “avventure da fermo”, i “viaggi a zig-zag”, i trip psichedelici, le proiezioni cinematografiche (appunto: proiezioni) e oggi le perlustrazioni e gli smanettamenti su internet e su altri apparati tecnici degli ultimi decenni hanno tutti il grave torto di chiudere l’individuo nella sua solitudine, anche quando fingono di aprirlo a tutto il mondo e a tutta la conoscenza, a tutto il controllabile e perfino all’invisibile. Considerano in sostanza come realtà (e avventura) ciò che ne è soltanto un surrogato, variamente onanistico.
Non si ha nulla contro l’esperienza di idee e sentimenti che comportano la lettura di un buon libro e la visione di un bel film, e c’è sempre tanto da imparare anche dai “viaggi” degli altri, non solo da quelli che hanno avuto luogo davvero. Per esempio da quelli di Ulisse e ovviamente di Dante, del Pellegrino e dell’Everyman, di don Chisciotte e di Moll Flanders, di Jim Hawkins e di Pinocchio, di Huckleberry Finn e dei figli del capitano Grant, di Gary Cooper e di Errol Flynn, di Howard Hawks e di Stanley Kubrick, di Tex e di Lady Hawke, di Tarzan e di Corto Maltese, dei Tre Moschettieri e di Sandokan, del commissario Maigret e di Nero Wolfe, di Sam Spade e di Philip Marlowe, di Harry Potter e di Mary Poppins eccetera (è significativo che nello stilare a caso quest’elenco i nomi di eroine che mi sono venuti in mente siano così pochi: anche l’avventura vicaria è cosa da maschi?). Ma altro è parlar di morte altro è morire, dice un proverbio, e altro è vivere un’avventura e altro è sognarla protetti dal rischio, dalla paura, dal pericolo, nonché dal piacere concreto e corporeo dell’attraversamento di ambienti, dell’incontro con l’Altro e il Diverso, del confronto con la Natura e con le Culture. Meglio allora la piccola avventura vera che la grande avventura finta? Non bisogna essere moralisti anche in questo – se la realtà ci preserva dalle “grandi avventure” pericolose come la guerra, la rottura dell’ordine portata dalle catastrofi, l’emigrazione forzata... è certamente un bene. Ma se il nostro bisogno di avventura, come componente fondamentale dell’animo umano che consiste in definitiva nell’interrogare il mistero, nella ricerca del senso, si riduce a una infelice piattezza o a una solipsistica povertà dell’esperienza, allora l’avventura andrà cercata altrove che nelle sue parodie e nei suoi surrogati – e altrove che nella sfida gratuita o obbligata dalla guerra, della violenza (la malavita con il suo fascino e le sue soluzioni) o dello spostarsi frenetico e nevrotico non mosso da nessuna necessità concreta o da nessuna lodevole inquietudine dell’anima.
In un film italiano di dieci anni fa, e cioè nel pieno dell’era berlusconiana, che è stata per l’Italia la più truccata e taroccata delle avventure della politica, L’imbalsamatore di Matteo Garrone, a un giovane italiano molto qualsiasi si aprivano due sole possibilità di futuro: quella di un legame perverso con un nano affiliato alla camorra che gli prometteva una vita lussuosa e “avventurosa”, e quella di un comune matrimonio e un  comune lavoro, di una vita tranquilla e ben poco attraente. Non altro che questo? Un anticonformismo malato e criminale o un conformismo di noiosa piattezza e banalità?Le due scelte erano (sono) ugualmente ricattatorie, ugualmente conformiste. L’avventura come crimine (e morte dell’anima), la normalità come accettazione (e morte dell’anima)? Possibile che non vi fosse (che non vi possa essere, che non vi sia) una terza strada? Che non sia possibile vivere come avventura, scoperta, sfida, apertura alla realtà, liberazione della realtà la propria vita dentro questa società e questa storia? Sappiamo bene che dietro le “avventure del bene” si nascondono, nel nostro tempo, molte truffe e molti inganni – l’autoaffermazione di singoli e di gruppi che prosperano sulle disgrazie della gran parte della popolazione mondiale, e tra quei singoli ci sono scrittori, registi, saggisti, giornalisti, e perfino preti di più chiese... Ma è solo in questo orizzonte che possiamo vivere avventure positive (un aggettivo da rivalutare!), quelle che possiamo scegliere di affrontare non costretti dalle circostanze (miseria e guerra, carestia e dittatura). Di queste avventure dovremmo nutrirci, vedendone le difficoltà e anche le contraddizioni, ma anche le infinite potenzialità in un mondo sempre meno avventuroso, o sempre più tragicamente costretto alle “avventure” del dolore e della morte. Con gli altri, per gli altri. Per noi stessi.
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