mercoledì 17 settembre 2014
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«Ho perso mio padre per un incidente stradale quando avevo 12 anni. Col passare del tempo mi è cresciuta la curiosità su quale rapporto avrei avuto con mio padre se non fosse scomparso quando io ero solo un adolescente ». Pupi Avati riflette con Avvenire su quali sono le più intime motivazioni che lo hanno spinto a girare il film Un ragazzo d’oro, di cui cura regia e sceneggiatura, con Riccardo Scamarcio e Sharon Stone, musiche di Raphael Gualazzi, che esce domani in 300 sale coprodotto con Rai Cinema). Al centro i tormenti di un giovane pubblicitario, schiacciato dalla figura paterna (il padre è uno sceneggiatore di film di serie B) e soprattutto dall’ombra del fallimento. La morte dell’uomo rimescolerà le carte, portandolo a riscoprire, in un vuoto pieno di presenza, aspetti sconosciuti del genitore, spingendo il giovane a cercare il riscatto della memoria paterna a tutti i costi. Un figlio che si dirige verso limiti psicologici pericolosi per compiere un atto d’amore estremo che può lasciare spiazzati. Avati, il rapporto padre/figlio sta diventando una tematica sempre più presente nel suo cinema. «Da quando sono entrato nella mia piena maturità il tema del rapporto padre/figlio incombe nella mia vita in modo sempre più pressante. Ho infatti ipotizzato in alcuni film diverse tipologie di padre: ccessivamente premuroso ne Il papà di Giovanna, orrendo ne Il figlio più piccolo, totalmente assente ne La cena per farli conoscere, sino a raccontare il mio vero padre nella fiction  Un matrimonio. In Un ragazzo d’oro ho deciso di aggiungere il padre fallito che fa gravare il suo fallimento sul figlio». E che tipo di figlio è il protagonista? «Stavolta ho deciso di raccontare la storia di un figlio meraviglioso e di un padre che questo figlio non lo merita. Sono infatti convinto che nella famiglia di oggi i figli siano potenzialmente migliori dei padri. La figura paterna si è dileguata, non assolve più al proprio ruolo, si eclissa per motivi egoistici. Siamo arrivati a un relativismo etico e morale devastante come era stato evidenziato da Benedetto XVI. E i figli stanno pagando un prezzo altissimo». E lei, come figlio, com’era? «Questo film mi riguarda molto. Io e i miei fratelli siamo cresciuti accuditi da una madre generosa, disponbile, sensibile, ma senza il rigore di una figura paterna. E come Scamarcio nel film “eredita” dal padre il sogno della scrittura, io ho ereditato da mio padre quello del cinema. Lui con due amici nel 1950 andò a Cinecittà con l’idea di produrre un film. Si trovarono sul set con Totò, tornarono a casa entusiasti. Tre mesi dopo mio padre morì». Anche nel film c’è un’assenza eloquente. «Il giovane, che odiava il padre, indagando scopre man mano una figura paterna molto più simile a lui di quanto pensasse. Io quando ho cominciato a girare film, ho sentito che mi sarebbe piaciuto rendicontare la sera il mio lavoro con papà. Proprio io, quel ragazzino che lui, così colto ed elegante, guardava con diffidenza, sentivo bisogno di lui». Nella sua pellicola si affronta anche il tema del disagio psichico. «La speranza del film è quella di andare oltre la ragione. Questi ragazzi che spesso hanno patito per l’assenza di una figura paterna, ostaggio di madri iperprotettive, diventano ombrosi e aggressivi. Io lo so perché ho tanti giovani assistenti sul set, che mi raccontano le loro vite. Però io ho un’esperienza magnifica in generale con le persone disturbate, come ho dimostrato in tante pellicole: sono le persone più fantasiose, che escono dall’omologazione, sono imprevedibili e ti fanno fare cose magnifiche. Con loro ti arricchisci». Ma come mai, in questo contesto, ha voluto Sharon Stone? «Mi serviva una persona dal fascino indubbio al primo sguardo. Lei è un’icona mondiale, una grande professionista, ma è impossibile diventare amici. Fare un film con una diva come lei è come fare un rogito dal notaio». Continuerà con altri lavori sul filone genitori figli? «In qualche modo sì. Ho appena finito di girare a Lampedusa un film per la Rai che dovrebbe andare in onda a dicembre. Protagonista Laura Morante, una donna senza figli che adotta un piccolo profugo siriano, sopravvissuto a un naufragio. Ma poi scoprirà che il bambino ha dei fratelli in Germania, e dovrà farli ricongiungere. È una storia di grande generosità e di accoglienza: non si possono più vedere in tv immagini di queste persone trattate come se non fossero esseri umani».
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