sabato 22 luglio 2017
Farsi la casa con le proprie mani: «Oggi – dice Andrea Staid – è considerato “illegale”, come l’abusivismo, ma in Occidente è stata la norma fino a tempi relativamente recenti»
Rendering di un intervento di autocostruzione in Ghana

Rendering di un intervento di autocostruzione in Ghana

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È il popolo mobile delle tende e delle lamiere, la nazione invisibile dei vagoni ferroviari dismessi e dei caravan in disuso. «Secondo le stime dell’Unione Europea, nel continente gli abbaraccati non sono meno di 54 milioni. Rifugiati, sfrattati, senza tetto, ma anche persone che scelgono di vivere ai margini della società in accampamenti improvvisati, in case occupate oppure in comunità. Il loro, spesso, è un gesto politico, la cui portata resta tutta da indagare», spiega l’antropologo Andrea Staid, che al tema ha dedicato una lunga indagine sul campo i cui risultati sono ora sintetizzati in un volume dal titolo volutamente provocatorio: Abitare illegale (Milieu, pagine 184, euro 14,90). «Quella che oggi viene percepita come illegalità – ribadisce il giovane docente della Naba di Milano – è il più delle volte la riscoperta di una dimensione originaria, della quale si è ormai perduta la memoria».

A che cosa si riferisce?

«Alle pratiche di autocostruzione, che fino a un periodo relativamente recente hanno rappresentato la norma dell’abitare, anche in Occidente. Si tratta di un’attività che chiama in causa due aspetti fondamentali dell’esperienza umana. Il primo è il saper fare, l’abilità e la creatività dell’homo faber. Il secondo, forse meno evidente ma proprio per questo tanto più significativo, riguarda la consapevolezza del nostro rapporto con i luoghi o, meglio, il modo in cui l’identità di ciascuno si forma e consolida nella relazione con un luogo. L’autocostruire, in questo senso, è sempre un autocostruirsi e coinvolge necessariamente la dimensione comunitaria. Molti dei casi che ho studiato, dagli insediamenti di rom e sinti fino ai villaggi urbani berlinesi, insistono su questo elemento, del tutto centrale anche per i gruppi che sono espressione del mondo cattolico. Nel libro mi soffermo in particolare sulla vicenda di Agognate, in provincia di Novara, ma la casistica che potrei produrre è molto ampia. E, lo confesso, ha stupito anche me».

Perché?

«Fin dall’inizio avevo messo in conto che il cosiddetto “abitare illegale” rivestisse un ruolo politico, che diventa evidente nel fenomeno delle occupazioni. Quando parlo di politica mi riferisco anzitutto al ripensamento del tempo e dello spazio così come sono normalmente percepiti e vissuti oggi, e già questo, in una certa misura, è un fatto che ci obbliga a spostarci nel territorio della spiritualità. Non solo non è raro trovare tracce del sentimento religioso nei contesti abitativi informali, ma sempre più spesso l’elemento religioso è determinante nel costituirsi delle nuove comunità. In futuro mi piacerebbe approfondire la ricerca sulle comunità monastiche, nelle quali tradizioni e innovazione convivono tra loro in maniera davvero sorprendente».

Siamo ancora nell’ambito dell’autocostruzione?

«Sì, e della riscoperta della dignità che l’autocostruzione porta con sé. Tornare a essere persone abili permette di riprendere consapevolezza delle proprie azioni, in una prospettiva che si rivela straordinariamente utile nei momenti di crisi. Basti pensare a quello che accadde più di trent’anni fa in Friuli, all’indomani del sisma, ma anche alle iniziative di quanti, dopo i terremoti che hanno colpito l’Italia centrale, hanno preferito tornare a vivere in una casa costruita con le proprie mani, sottraendosi così all’eventuale ricatto degli affaristi di turno. In circostanze simili l’autocostruzione non è soltanto una prassi che rinsalda lo spirito di comunità, ma anche un risposta coraggiosa e adeguata sul piano economico».

Mi scusi, ma da dove passa la differenza tra aucostruzione e abusivismo edilizio?

«Dalla consapevolezza del soggetto, mi verrebbe da rispondere, ma mi rendo conto che rischia di suonare astratto. Provo a riferirmi a un’altra categoria, che è quella dell’“architettura vernacolare” proposta a suo tempo da Ivan Illich per definire l’insieme delle costruzioni tradizionali, spontanee, non omologate. Sono pratiche che utilizzano i materiali presenti sul territorio secondo una logica e uno stile tramandati da una generazione all’altra. Di nuovo, è il rapporto con il contesto a essere risolutivo. L’abusivismo non tiene in alcuna considerazione lo spazio che occupa, con le conseguenze che conosciamo. L’autocostruzione, al contrario, appartiene a una dinamica vernacolare, non invasiva. La stranezza, se così vogliamo chiamarla, è che di solito l’autocostruzione è perseguita con una determinazione maggiore di quella riservata all’abusivismo».

E gli accampamenti dei migranti?

«Al di là di ogni mitizzazione, sono la conferma di come l’essere umano, in condizioni estreme, si stringa in esperienze di mutuo appoggio, facendo affidamento sulla cooperazione. Nel Ghetto di Foggia, nella Giungla di Calais, nei campi di Idomeni si assiste a innumerevoli manifestazioni di solidarietà e di intraprendenza: si organizzano cineforum e scuole di danza, si aprono punti di ristoro informali, ci sono perfino stazioni radio che diffondono lo spirito di comunità all’interno della struttura...».

In questi casi, però, l’“abitare illegale” non è una scelta.

«Certo, c’è una differenza sostanziale tra il migrante costretto a vivere in una baraccopoli e la persona che, stanca di stare in città, si trasferisce in un ecovillaggio. Ma un dato comune esiste ed è il ripensamento del rapporto fra individuo e comunità. Con modalità diverse e in apparenza opposte, è sempre la crisi del nostro concetto di abitare che viene alla luce. Ormai non ce ne rendiamo conto, ma nella parola “appartamento” è insita la nozione di isolamento, chiusura, esclusione dell’altro. Ripenso a quello che mi ha detto, tempo fa, uno dei sacerdote che vive ad Agognate: non potrei stare tra quattro mura, ripeteva, mi staccherebbe troppo dalla realtà. Ed è proprio su questa emergenza culturale che dovremmo imparare a soffermarci. Ci siamo ormai abituati, per esempio, al fatto che le nostre città siano costruite in verticale: scelta più che comprensibile, se ci si pone l’obiettivo esclusivo di sfruttare al massimo sullo spazio. Ma ci siamo domandati che cosa si perde con l’abbandono della dimensione orizzontale? La convivenza, la cooperazione, la solidarietà sono valori che si sviluppano meglio in uno scambio da pari a pari. Orizzontale, appunto, e non verticale».

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