venerdì 4 agosto 2017
Due nuovi libri di Aldo Zargani e Michele Mari mettono in luce virtù e insidie di un genere letterario nobile e che richiede la capacità di “disappropiarsi” di se stessi
(Disegno di Doriano Solinas)

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Cosa rende un’autobiografia universale? Mi appassiona, delle narrazioni autobiografiche, osservare come il mondo “arriva” al lettore. Proust ha costruito con À la recherche du temps perdu un modello di racconto di sé che a distanza di un secolo non accenna a sbiadire. Quell’opera monumentale per prima ha mostrato come lo scandagliare l’anima sia ossatura su cui si impianta un genere narrativo in cui il nesso tra vita interiore e accadimenti esterni gioca una funzione decisiva. Come per ogni forma letteraria, anche le evoluzioni di quel genere peculiarmente emblematico che è il racconto di sé, sono in grado di illuminarci su certi tratti di contemporaneità. Due libri recenti, In bilico di Aldo Zargani (Marsilio, pagine 192, euro 16,00) e Leggenda privata di Michele Mari (Einaudi, pagine 176, euro 18,50), entrambi affreschi di infanzia, sono tutti e due mémoirs dove l’autorappresentazione fa da ponte lanciato in direzione del mondo.

Gli esiti, in termini narrativi, sono molto diversi, e di una specularità eloquente. L’autobiografia di Zargani è proseguimento di un’altra sua, Per violino solo (2010); la stessa infanzia – di bambino ebreo segnato dal trauma dello sterminio – qui è "in bilico", per l’appunto, tra immane tragedia macro-storica da un lato, e cauto, equilibrato ritrovare personale serenità dall’altro. Racconto lieve, delicato, a tratti anche ironico. Dove infanzia, crescita, maturazione, trovano come sfondo e cornice lo smarrimento di tante famiglie italiane ebree sopravvissute, la loro irreparabile ferita divenuta malessere collettivo, eppure capace nel tempo di aprire la strada a soluzioni vitali. Zargani guarda al bambino che è stato con un sorriso saggio; intorno, più e meno leggeri, più e meno appassionanti, ecco la vita, il mondo, non del tutto compresi perché «quando la storia accade, non la si percepisce». Il mondo che tuttavia, con la sua rutilante presenza, sostiene, nutre lo spirito. Permette alleanze, empatie, simbiosi persino, tali da permettere di dimenticarsi di sé per trasmigrare in altri, verso il racconto di vite altrui («a questo punto abbandono la mia personale tara ipermnestica », Zargani dichiara a pagina 69, prima di spostare l’asse del suo racconto sul punto di vista della memoria di un amico morto).

L’altra autobiografia, Leggenda privata, non stempera né risparmia nulla al lettore. Nessuna levità, anzi uno scandagliare via via più lucido, impietoso, chirurgico. «Animale biopsichico», quello che Mari si ripropone di frantumare, esaminare in ogni dettaglio prima di restituirlo in nessun modo pacificato, ma narrato. Le ombre e i molti chiaroscuri di un pesante, aspro conflitto padre/figlio non si diradano, anzi si addensano via via di più per quanto la voce protagonista se ne fa carico, se li prende sulle spalle – perché narrare non guarisce, ma delucida, rende adulti e massimamente responsabili proprio in quanto fa vedere. E il mondo, dov’è? In una folla di nomi (il padre di Mari è una firma storica del design, la madre ha frequentato scrittori famosi), sembra che la voce narrante resti sola, isolata; impermeabile alla realtà per quante e quanto forti sono le difese elaborate pur di non lasciarsi annientare dall’esterno.

Al di là della bellissima prosa dal punto di vista formale, Leggenda privata mostra tutta l’insidia insita nella duplice accezione dell’aggettivo che è nel titolo. “Privato” è intimo, ma anche manchevole, deprivato. E a mancare è proprio il mondo. Quel mondo che con il suo “salto empatico”, Zargani ci mostra di più. Un po’ come nella festa che conclude la Recherche proustiana (ne Il tempo ritrovato), i fatti della vita e il loro fluire, lo scorrere del tempo e il suo crudele ricondurre ciascuno al punto di partenza, in un’autofiction che si rispetti dobbiamo poterli percepire, sentire vicini. La vita che salvi può essere la tua, era il bellissimo titolo di una silloge di racconti della scrittrice americana Flannery O’Connor. Il punto non è certo morale, ma narrativo: una dose di empatia dello sguardo dello scrittore, una capacità di “disappropriarsi” e dedicarsi ad altro e ad altri, è prologo indispensabile, perché un’autobiografia assuma una portata più vasta del mero racconto personale.

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