venerdì 4 dicembre 2020
La rivista “Riga” affronta una questione estetica che da oltre un secolo alimenta il dibattito: non è solo indice del brutto o del cattivo gusto, ma una conseguenza della società dei consumi
Una vista sul Canal Grande a Venezia con una scultura dell’artista americano Jeff Koons

Una vista sul Canal Grande a Venezia con una scultura dell’artista americano Jeff Koons - -

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Se sia più Kitsch stampare un fascicolo di rivista con oltre seicento pagine, la cui caratteristica è quella, da sempre, di offrire materiali utili alla comprensione di un tema o l’opera di un personaggio, oppure arrivare alla fine e dover ammettere – nonostante un articolato questionario “proustiano” a cui tentano di rispondere ventisette intellettuali – che le molteplici idee dei convocati a questa sfida impossibile non fanno, tutte insieme, un quadro più leggibile della questione, ma si condensano ancora nella domanda iniziale: che cos’è il Kitsch? Che con una semplice elisione dell’articolo determinativo diventa: che cosa è Kitsch? Tutto oscilla fra queste due questioni. Se non fosse un giochetto fin troppo facile, agli eroici compilatori di questa antologia che forma il numero 41 della rivista “Riga” – Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone – intitolato appunto Kitsch (Quodlibet, pagine 606, euro 28,00) , si potrebbe rispondere che il Kitsch non esiste ma al tempo stesso che il Kitsch è, più o meno, in tutti noi. Il Kitsch è una creazione del disgusto intellettuale borghese e diventa poi un frutto dell’immaginazione attiva delle società democratiche e la lingua in cui questa immaginazione si esprime è la sintesi di un modo di essere: il PopKitsch. È lo stile delle democrazie fondate sull’economia del consumo e sulla caduta delle gerarchie di valore che già aveva colto Clement Greenberg nel 1939 quando scrisse il celebre saggio su Avanguardia e Kitsch: «Sono messe in discussione tutte le verità implicate nella religione come l’autorità, la tradizione, lo stile e scrittori e artisti non sono più capaci di valutare la reazione del loro pubblico», da qui la premessa del critico americano: «Diventa difficile presupporre qualsiasi cosa».

Già Baudelaire sosteneva che un artista lo valuti anche osservando il suo pubblico. Fin qui ci siamo. Ma la novità è che al tempo del poeta francese già si coglievano i sintomi del Kitsch imminente: i salon non erano forse il palcoscenico di un Kitsch dove il valore di esposizione incontrava i desideri di una società borghese che chiedeva arte di consumo? Sì, ma che arte! E anche il consumo era diverso, non di massa certo. Eppure il valore delle cose esposte – moltissime oggi dimenticate – non basta a salvare i salon dal giudizio che li pone all’origine della mercificazione dell’arte. Ma l’arte, si dirà, è sempre stata pagata. È vero, da chi con molti soldi comprava l’opera per goderne da solo e come segno della propria condizione esclusiva, oppure, senza alcun pensiero di lucro, con intenti pedagogici, interni a precise ritualità, oppure nel sacro come memoria e gloria al divino. I salon invece sono il luogo laico dove il 'mercato' da realtà deputata agli scambi sui beni più o meno necessari, diventa un teatro dove l’esposizione di un’opera è simile alla messa in vetrina di una donna che vende la sua bellezza. Noi siamo eredi di questa cultura dell’esposizione che grazie alle tante innovazioni tecniche e comunicative diventa ostentazione. Ed è proprio con questo ostentare che tutto comincia a giocarsi anzitutto sul denaro: chi ne ha, chi ne fa tanto, chi insomma è un protagonista del capitale in azione investe una parte dei propri proventi per mostrare al mondo, con nuovi totem spettacolari, il proprio potere economico ma anche per elevarsi nella sfera culturale. Autorappresentazione.

Chi ha tanto capitale, dopo aver incentivato i propri affari, ne investe una fetta cospicua fingendosi mecenate, cioè acquistando sul mercato dell’arte oggetti esclusivi – magari un discutibilissimo Salvator Mundi o il dipinto di un contemporaneo strapagato che a ogni asta accresce il proprio valore –, creando musei che sono in realtà sofisticate forme di marketing con le quali si moltiplica l’aura non dell’opera d’arte ma del loro possessore, viaggiando per immagine in rete, entrando nelle memorie digitali con una forza di amplificazione inedita rispetto al passato. Si chiedeva Greenberg nel 1939 se non fosse necessario esaminare la questione in modo più originale. E il «diventa difficile presupporre qualsiasi cosa» adesso è ancor più calzante di allora: la frantumazione della coesione sociale e la riaggregazione su valori assai mutevoli e instabili, che cambiano in fretta seguendo le campagne di condizionamento del gusto, rende impossibile trovare un accordo su che cosa sia, per esempio, Kitsch. Può essere il catalizza- tore del disprezzo di chi si sente nella cultura alta, o del sentimentalismo di chi di un oggetto dice: “Che carino!”. Esiste anche il Kitsch perfetto, ne parlava tanti anni fa Giovanni Klaus Koenig – uno che avrebbe dovuto essere presente in quest’antologia con almeno un brano (ci sarebbe stato solo l’imbarazzo della scelta). Perché il Kitsch non è il brutto o il cattivo gusto, ma il come se ne fa uso a fini estetici. Per esempio, col Kitsch le antitesi non funzionano bene: difficile concordare con Leo Löwenthal quando sosteneva che il Kitsch è l’antitesi della cultura pop. Vent’anni dopo Greenberg Harold Rosemberg scrisse: «la vita e il Kitsch sono diventati inseparabili».

Lo vediamo tutti i giorni. Ma se in ogni opera d’arte, secondo Hermann Broch, c’è un po’ di Kitsch, allora si deve tentare di dire perché esso sia una sorta di prezzemolo estetico della modernità. Un altro studioso che sarebbe caduto a fagiolo in questa antologia, ma non c’è, Hans Sedlmayr, sostenne che tutto cambiò nel Settecento quando proliferarono le camere degli specchi e s’impose la «preponderanza del finto ». Non l’inautentico, ma qualcosa che imita e agisce di riflesso sull’autentico. Non voglio infilarmi in un vespaio ma l’egualitarismo democratico è una forma di Kitsch. La parabola dei talenti fa da controprova. Ma, ancora, il finto: il turista è un finto viaggiatore. Viaggia ma non gl’importa affatto di conoscere a fondo ciò che incontra, gl’interessa soltanto goderne. Il viaggiatore invece è uno che arriva in un posto, ci resta abbastanza per conoscere un po’ quella realtà, vuole capire che cosa ha davanti non guardandolo ma condividendo quell’angolo di vita. Cerca, insomma, di entrarvi dentro. Il turista è Kitsch, il viaggiatore no. Siccome i turisti – Covid permettendo – sono un soggetto antropologico dominante, che partecipa al sistema del consumo, se ne può dedurre che il Kitsch è molto diffuso, anche se– per citare Umberto Eco – inavvertito, cioè come un «peccato commesso senza volerlo». Il Kitsch in fondo è banale, ma nel Novecento abbiamo visto che la 'banalità' può essere causa di un male atroce... E qui torniamo al nostro G.K. Koenig – che era nipote della signora Lenci, quella delle bambole – il quale ebbe a spiegare un caso di Kitsch perfetto: il radiombrello. Perché perfetto? Perché assolveva a due funzioni che fra loro non avevano alcun legame e nessuna coerenza estetica: riparava dalla pioggia i tanti che andavano allo stadio e prendevano posto in curva, ma se pioveva, avendo la radiolina nel manico, permetteva ai tifosi di seguire in tempo reale la cronaca delle altre partite così da essere informati sulla posizione in cui si sarebbe trovata la propria squadra in classifica.

Che dire? Chapeau . Il Kitsch può essere dunque anche divertente, ma in realtà è una cosa seria, ben diversa dai nani dei giardini, perché è diventato il testimonial del capitalismo (e si potrebbe aggiungere come lo fu anche del comunismo, se si considera che i suoi dinamismi tipici sono inclusivi, omologanti e, soprattutto, operano per sfruttamento tanto delle nostre pulsioni quanto della nostra volontà, come è tipico dei sistemi totalitari). Lo spiegò bene nel 1953 Dwight Macdonald: il Kitsch viene dall’alto, non dal basso, è un prodotto di poteri che cercano di addomesticare la gente proponendo loro una idea di cultura per le masse. Ma questa cultura – aggiunge Macdonald – è una creazione dei “Signori del Kitsch”. Forse per questa ragione anche l’avanguardia di massa di cui parlava Greenberg oggi è diventata un’accademia del consumo che propaganda l’arte come merce e trasforma le città in circhi estetici. Quando dicevo della frantumazione dell’ordine sociale alludevo a quel passaggio sostanziale dalla società interclassista a una che comprende soltanto due semisfere: far parte del grande ceto affluente o esserne esclusi. E per farne parte non devi per forza avere soldi, non devi essere ricco o benestante, può bastare una certa aspirazione alla cultura, un ambito di lavoro nel terziario avanzato, una partecipazione adeguata a consumi che attestano l’elezione in quel ceto di vincenti. Ecco perché alcuni prodotti – quelli tecnologici per esempio – sono così ambiti anche da chi fatica a entrare in una certa scala di reddito. Anche questo è Kitsch. Avere certi oggetti o determinate dotazioni oggi significa socialmente star bene o star male secondo i parametri della società dei consumi. Questo è Kitsch, ma la vita è un’altra cosa.

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