mercoledì 12 dicembre 2012
​In Ruanda le etnie nemiche di Hutu e Tutsi hanno scoperto in campo il senso di appartenenza alla stessa squadra
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Progetto Ruanda. Esperanze, un calcio alla guerraNel Ruanda ancora lacerato dal genocidio del 1994, la ricon­ciliazione tra hutu e tutsi si gioca anche in un campo da calcio. È quello della Esperance, un’associa­zione sportiva di Kigali, che dal 2002 raduna i ragazzini di entrambe le et­nie e li fa divertire con il pallone. Con­dividere lo spogliatoio può spingere verso il rispetto reciproco, gettando così le basi per una convivenza paci­fica, che metta per sempre in fuori­gioco gli spettri del passato. Il Ruanda sta lentamente superando i suoi trau­mi: nel 2012 il tasso di povertà è sceso dal 57 al 45% e anche la mortalità in­fantile è in calo. L’economia in com­penso cresce, grazie soprattutto a un’industria del turismo che inizia ti­midamente a sfruttare le straordinarie bellezze naturali del Paese. In questo scenario incoraggiante, anche il calcio può ricopri­re un ruolo impor­tante. La Fifa se ne è convinta a tal punto da decidere di finan­ziare il progetto “Football for hope” (calcio per sperare), che prevede di co­struire venti centri sportivi in altret­tante città africane. Luoghi sicuri do­ve i bambini possano recarsi per im­parare non solo i fondamentali del gio­co più amato, ma anche e soprattutto per socializzare, ricevere un’istruzio­ne e un’assistenza sanitaria. Uno di questi centri (finora ne sono stati rea­lizzati otto) è stato consegnato nel no­vembre scorso proprio all’Esperance: qualcuno l’ha già definito un “hub del­la pace”, perché chi indossa scarpette per inseguire un pallone si dimentica in fretta degli odi razziali. Quello che ti trovi di fronte non è più un nemico da eliminare, al massimo un avversa­rio da dribblare. E quello che ti corre accanto diventa un compagno su cui poter contare anche fuori dal campo. Con una maglia addosso, hutu e tutsi sentono finalmente di appartenere al­la stessa squadra. Per le giovani gene­razioni è una preziosa opportunità, che aiuta a metabolizzare le scorie del passato e a consolidare le basi di una nazione nuova, fondata sulla tolle­ranza. Il centro sportivo sorge a Kimisagara, una delle zone più povere della capi­tale Kigali, e ha tre componenti fon­damentali, come tutti i centri di “Foot­ball for hope”. Il primo, ovviamente, è il campo, realizzato in erba artificiale. Grazie a un particolare sistema di dre­naggio è in grado di assorbire l’acqua piovana, che poi viene riutilizzata per servizi sanitari, lavanderia e irrigazio­ne dei terreni vicini. Un assist per l’am­biente, cui si aggiunge anche l’illumi­nazione a impatto zero: i fari funzio­nano con led alimentati da pannelli solari. Accanto al campo di gioco sor­ge un edificio che ospita aule didatti­che. I ragazzini iniziano tirando calci a un pallone e finiscono con il ritro­varsi un libro tra le mani. Un “inganno” a fin di bene, che aiu­ta a colmare le lacu­ne dell’offerta scola­stica nei miseri sob­borghi della capitale. La struttura di Kimi­sagara è completata dal centro sanitario, che garantisce cure mediche e porta avanti campagne e­ducative su salute e igiene personale. L’Aids resta una delle peggiori piaghe e il programma “Football for Hope” u­tilizza le sue energie per vincere an­che questa difficile partita. Negli ultimi dieci anni più di 4 mila ra­gazzi hanno frequentato gli allena­menti dell’Esperance: due di loro han­no raggiunto la nazionale. Ora, grazie al centro donato dalla Fifa, il numero dei baby calciatori crescerà ancora. “Football for hope”, piccolo seme la­sciato all’Africa dopo il Mondiale 2010, è germogliato anche in Namibia, Gha­na, Mali e Lesotho, oltre che nello stes­so Sudafrica. Coltivato dalla Fifa e dal network sportivo-solidale Street Foot­ball, in stretta collaborazione con le ong locali, il progetto continua a met­tere radici, contribuendo allo svilup­po sociale del Continente Nero. Che finalmente può giocare per vincere.

Paolo Grasso

Fratelli del Senegal. Sedotti e “abbandonati” dall'ItaliaA migliaia ogni anno arrivano qui in Italia dall’Africa con il miraggio del grande sogno di cuoio, ma la maggior parte poi entrano a far parte della rosa sterminata dei “traditi del pallone” e se ne vanno.La storia dei fratelli Diompy, Maxime, 40 anni e Benjamin 20, senegalesi di Dakar, può ancora avere un secondo tempo con un finale di partita a lieto fine, ma per ora il risultato parziale li vede in netto svantaggio. «Sono arrivato sei anni fa... - racconta Maxime - . Avevo giocato in Serie A, come 4 dei miei otto fratelli, e nel frattempo mi ero laureato in Matematica. Con i risparmi del lavoro, controllore di qualità in laboratorio in una ditta agroalimentare, ero riuscito a coronare il mio sogno: venire qui per perfezionare gli studi e diventare un allenatore di professione». Maxime arriva a Torino per un master e poi segue un cugino in Abruzzo. Come mister comincia dal basso, con i pulcini del Lanciano (club di B) e poi va a Coverciano al corso per allenatori. Pensava che con un patentino da tecnico le porte degli spogliatoi si sarebbero spalancate...Non è andata così. «Alleno per passione, gratis e per vivere di notte faccio il badante a un anziano di 85 anni, perché devo dare una mano a mio fratello Benjamin». Nei giorni dell’illusione infatti Maxime aveva invitato il fratello più piccolo a lasciare il Senegal, dove Diompy jr nel frattempo si era fatto un nome nel Douane Dakar e come attaccante della Nazionale Under 18, per raggiungerlo. Appena atterrato, Benjamin viene subito ingaggiato dal Miglianico (Serie D). «Chiunque l’abbia visto giocare si è reso conto che possiede un altro passo. Un piccolo Eto’o per intenderci. Però intanto lo scorso anno, pur facendo sempre la differenza, lo pagavano 200 euro al mese. Lo stesso stipendio di un professionista in Senegal, ma qui la vita costa dieci-venti volte di più che a Dakar e per un ragazzo che non parla ancora bene l’italiano è impossibile anche trovare un lavoro alternativo al calcio».In estate poi Benjamin riceve la brutta notizia: tagliato dal Miglianico, perché in rosa avevano già un altro extracomunitario da tesserare. La solita storia, limite di tesserabilità per gli extracomunitari e soprattutto ali tarpate per spiccare il volo, destinazione professionismo. A quello, una legge assurda, esclusiva del sistema italiano, prevede che si arrivi solo vincendo il campionato di Serie D. Ma Benjamin è dovuto scendere di categoria, al Tre Ville, - Promozione abruzzese - e quella Seconda divisione che è la prima porta d’accesso al professionismo da miraggio sta diventando utopia. «Al Tre Ville abbiamo chiesto uno stipendio di 800 euro che servirà prima di tutto per spedire i soldi a nostra madre che è malata di tumore e ha tanto bisogno di cure. A fine stagione il denaro rimanente lo utilizzeremo per tentare fortuna altrove. Tanti dei compagni senegalesi di Benjamin sono diventati professionisti in Francia e in Belgio, come il suo amico, il centrocampista Cheikhou Kouyaté: gioca nell’Anderlecht e da poco ha affrontato il Milan in Champions». Campi lontanissimi da quelli che ogni domenica deve calcare Benjamin per sopravvivere. In Senegal con suo fratello Maxime è sfuggito alle violenze di chi come la loro famiglia appartiene alla minoranza cristiana, in Italia invece non è scampato al becero razzismo da stadio. «L’anno scorso nella partita contro il Teramo l’avversario che gli ha rivolto un insulto razzista si è preso 6 giornate di squalifica - ricorda Maxime - . È un altro problema che non ci aspettavamo di trovare e forse è un motivo in più per andare via. Ma lasciare l’Italia, senza avere avuto la possibilità di realizzarci, specie per Benjamin, rappresenterebbe una grande sconfitta...».

Massimiliano Castellani

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