venerdì 15 aprile 2011
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Chi sale da Cittanova verso lo Zomaro, una delle "porte" dell’Aspromonte, dopo una serie infinita di curve e controcurve, incontra finalmente un tratto pianeggiante. Sono i Piani di Marco che prendono il nome dal console Marco Licinio Crasso che Roma inviò nel 72 a.C. nel Bruzio (l’antica Calabria) alla testa di otto legioni per trovare, sconfiggere e annientare Spartaco, lo schiavo-gladiatore, che alla guida di un esercito di ribelli stava mettendo in difficoltà la Repubblica. Per tre anni Spartaco e i suoi riuscirono a fronteggiare l’imponente esercito e alla fine si sganciarono verso l’Apulia. Storia antica di "latitanti" e "poliziotti". Quasi un destino segnato per l’Aspromonte, terra conosciuta, purtroppo, soprattutto per le gesta sanguinarie della ’ndrangheta, dalle decine di sequestri di persona alle lunghe latitanze, alle faide come quelle di Cittanova, San Luca e Roghudi. Così se ai Piani di Marco è possibile vedere i resti delle costruzioni romane (per bloccare i rifornimenti a Spartaco, Crasso fece costruire un "vallo" lungo 55 chilometri tra Jonio e Tirreno), in altre zone dell’Aspromonte troviamo caserme e casermette, che hanno ospitato i gruppi specializzati di Polizia e Carabinieri nella ricerca di latitanti e sequestrati. Così come esiste ancora nel territorio di Sant’Eufemia d’Aspromonte, il pino al quale si appoggiò Garibaldi, ferito dopo lo scontro a fuoco con i bersaglieri, guidati dal colonnello Pallavicini, inviati per bloccare la sua nuova impresa verso Roma. Era il 29 agosto 1862. Chi non ha mai cantato la marcetta, "Garibaldi fu ferito, fu ferito a una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion…"? Ma Aspromonte, il "bianco monte" così chiamato dai greci per le sue rocce candide, è ben altro. Quarantamila ettari di boschi, valloni, forre, picchi vertiginosi e enormi monoliti, e tanta, tanta acqua. Sorgenti dalle diverse proprietà e imponenti cascate (la più famosa è quella del Maesano) chiamate in dialetto "schioppi". Terra bellissima e dura, così come la descriveva l’aspromontano Corrado Alvaro, nativo di San Luca. «Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare e la terra sembra navigare sulle acque». Aspromonte terra da amare, terra totalizzante. «Nella mia infanzia – scrive ancora Alvaro –, fino a nove anni, al mio paese, sono stato felice. Il paese mi pareva tutto il mondo. Non riuscivo a concepire che al di là dei monti esistesse un’umanità…». Non c’è da stupirsi. Gli aspromontani sono sempre stati gente di montagna, diffidente della pianura e del mare (la Calabria, malgrado i più di ottocento chilometri di coste, non ha mai avuto una tradizione marinara), pastori e uomini dei boschi e delle rocce, come i lupi, i gatti selvatici, le aquile che ancora oggi li popolano. Così gran parte dei centri abitati sono arroccati su speroni costeggiati dalle fiumare, secche d’estate, impetuose d’inverno. Terra d’acqua e di dissesti. Molti di questi paesini sono stati abbandonati dopo violente alluvioni, costringendo gli abitanti, questa volta davvero, a ricostruirli sulla costa, tristi e uguali, anonimi agglomerati di palazzi. Su in montagna restano, con l’aggettivo di "vecchio", paesini come Roghudi e Africo. E i resti del passaggio dei monaci Basiliani. La chiesetta di San Leo ad Africo, il santuario di Polsi dove ogni anno tra agosto e settembre arrivano in migliaia per venerare la Madonna della Montagna, ma anche luogo di accordi tra ’ndranghetisti, a conferma di come ancora oggi l’Aspromonte sia terra di contraddizioni. Gioielli invasi dall’intrico verde, ma che si comincia a pensare di recuperare. Hanno cominciato ad Africo alcuni volontari del Cai di Polistena (versante tirrenico), ammalati di Aspromonte, della sua natura e della sua storia. Con pala e piccone, nel tempo libero hanno ripulito la chiesa principale a la piazza. Davvero "chi fa da sé fa per tre". E dall’idea degli "stranieri" è nata un’associazione che fa riferimento anche al sito Africo.net, che vuole far rinascere il paese "vecchio". La sostengono l’università di Reggio Calabria e il Parco nazionale dell’Aspromonte. Già, perché la "montagna" è tutelata fin dal 1968, allora come parte del Parco nazionale della Calabria, dal 1994 come Parco nazionale dell’Aspromonte: 37 comuni sui due versanti, più di 65 mila ettari che culminano nella cima del Montalto a 1.956 metri. Un vero e proprio massiccio, quasi a forma di vulcano, solcato sui due versanti dalle profonde ferite delle fiumare, utilizzate un tempo d’estate dai pastori come vie di comunicazione, o digradante verso i mari con giganteschi terrazzi detti piani o campi. Terra antichissima. Le sue rocce sono molto antecedenti al resto dell’Appennino. E offrono scenari unici. Non lontano da San Luca, la vallata della grandi pietre, enormi monoliti, come Pietra Cappa, Pietra Castello o Pietra Lunga. A Chorio di Roghudi le "caldaie del latte" (tu vastarùcia, in lingua grecanica), sette rocce a forma di pentola dove beveva il drago che qui si nascondeva (nella rocca tu dràgu). Terra ancora in attesa di una vera valorizzazione, tra pochi sentieri segnati, scarsi punti d’appoggio, scarsissima attenzione delle istituzioni. Un’altra occasione persa per la Calabria? O è meglio così?
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