venerdì 19 maggio 2023
Alle opere già presenti nelle collezioni del Museo Bailo si aggiungono vari capolavori per esaltare con sculture e dipinti la forza espressiva di uno dei più grandi artisti del Novecento
Arturo Martini, “Donna che nuota sott’acqua”

Arturo Martini, “Donna che nuota sott’acqua” - -

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La scoperta del genio di Arturo Martini potrebbe, paradossalmente, avvenire con la parte meno apprezzata della sua opera: la pittura. Non sarebbe una novità partendo dalla scultura, e nemmeno dal disegno e dalla grafica, che possiedono più stabili caratteri di modernità. Ma partendo dalla scultura si dovrebbe rispondere poi anche ai tanti stereotipi che hanno cercato di rinchiudere Martini nel recinto che tocca spesso a chi ha operato in questo paese e si è formato nella nostra cultura: la classicità, ma anche la retorica e il monumento, il parlare in grande insomma, che ha pesato, ahinoi, su molti che si sono palesati in un periodo recente della nostra storia, quello del ventennio fascista.

Ora, già considerare Arturo Martini uno scultore classico sarebbe un errore madornale; ma metterlo in “quota” fascismo vorrebbe dire non aver capito granché della sua opera. Martini è quanto di più anticlassico si possa trovare nella scultura italiana moderna; ma questo è troppo evidente perché costituisca un’affermazione clamorosa. Se invece diciamo che Martini è uno scultore tra i più consapevoli ed emblematici in Europa di ciò che è anticlassico, battendo questo versante cominciano gli attriti con la critica che lo ha sempre messo in rapporto col Novecento italiano, affibbiandogli forse una vaga ma sottintesa prossimità, per la sua scultura “pubblica”, con l’idea monumentale del fascismo.

Ecco, dunque, il pregiudizio duro a morire. Sarà per questo che Martini è tutto sommato ai vertici nella storia dell’arte italiana, ma è poco celebrato all’estero? Perché schiacciato da quel pregiudizio? C’è una fotografia del 1942 dove Goebbels e qualche esponente fascista disquisiscono (chissà cosa si dicevano) davanti alla Donna che nuota sott’acqua di Martini, un capolavoro assoluto dell’arte europea novecentesca. D’altra parte al Museo Bailo sottolineano con orgoglio che nella mostra dedicata ora al genio trevigiano ("Martini. I capolavori", fino al 30 luglio) c’è anche il Legionario ferito, che venne esposto a Roma nel 1939, e poi scomparve dalla vista di tutti rimanendo fino a oggi sepolto nella casa Museo di Vado Ligure. Sarà pure frutto delle esaltazioni italiote dopo la guerra di Eritrea, e non è un capolavoro, nondimeno si coglie nel tema iconografico l’ironia di chi sa bene che i destini umani possono presto rovesciarsi e mettere in luce la debolezza dei desideri di conquista di un paese grande nella storia millenaria ma piccolo nei mezzi con cui aspirava in quegli anni a darsi una patente coloniale.

Eppure, non mi sfiora nemmeno l’idea che Martini potesse difendere quegli ideali. Del resto già alla prima Biennale del dopoguerra, nel 1948, lui appena morto, venne allestita una sua retrospettiva che lo collocava, come era giusto, fra i gradi scultori europei del suo tempo. Martini non è Sironi, che resta comunque un gigante dell’arte novecentesca; anzi, Martini è anche poco interessato a dare alla forma plastica una sorta di qualità retorica, è sensibile soltanto alla ricerca artistica, alla poesia della vita che esprime contrasti quanto mai netti: il vuoto e il silenzio sono il calco spirituale che rende leggibile l’anima delle cose alla luce nella materia plasmata dallo scultore. Il solido e il pieno sono il limite formale dell’arte occidentale, così come il vuoto e il silenzio sono il punto di elevazione dell’arte orientale. Martini, se si è attenti al suo modo di rendere ogni forma una manifestazione di “Eros”, si tiene in equilibrio fra queste due dimensioni dell’arte.

Dicevo della pittura di Martini. La mostra al Museo Bailo ne propone una scelta abbastanza ampia ma, come si intuisce sia nell’esposizione sia nel catalogo dove è relegata in una sezione finale, la tratta come un ambito che completa l’immagine artistica di Martini: un sottinteso limitante. Invece, credo che quelle opere aiutino a comprendere il modo di lavorare di Martini sulle forme della scultura, con una propensione, dato il colore, più emotiva e libera nelle intenzioni.

Trovo assolutamente interessanti Interno di stalla del 1941, Cane del 1944, il Paesaggio del 1943, Galline del 1945, Le bagnanti del 1946 e l’Acrobata del 1944 nel quale mi pare di avvertire un sottinteso autobiografico. Perché li trovo interessanti? Intanto perché sono tutti dell’ultima decade della sua vita, quando i criteri di scomposizione e di sperimentazione formale sul piano scultoreo appaiono meno sicuri e più complessi nelle intenzioni. E poi perché queste opere sembrano accompagnare Martini verso quella analisi spassionata, o se vogliamo disillusa, che è La scultura lingua morta, testo memorabile uscito a Venezia in cinquanta copie nel 1945, dove si parla della fine di un sogno antico, una lingua europea delle forme che diventa “morta” come è accaduto alle lingue classiche, al nostro latino.

Di fronte ai dipinti di Martini, nella sua pittura, si avverte qualcosa di irredento, di selvatico, anzi di impaziente, che premeva da dentro la sua scultura seppur addomesticato dal rigore della ricerca formale: tanto nelle ceramiche, quanto nei bozzetti, e persino nelle opere maggiori dove il suo genio irrequieto lo rende ipersensibile alla verità delle cose più povere e semplici – confessò, commosso, a Gino Scarpa di essersi avvicinato alla scultura guardando il padre fornaio e cuoco che preparava i dolci per le feste di paese con gli stampi da forno che riproducevano animali e altre figure care al sogno dell’infanzia –; oppure, lo attrae verso la corporea bellezza del nudo, e non soltanto femminile, come metro della possibilità concessa alla grande scultura di violare le regole imposte dalla natura e dal corpo.

Ci aveva provato già Degas quando plasmava le sue ballerine di cera imponendo alle sculture baricentri impossibili, e per vincere la sfida barava costruendo al loro interno anime in fil di ferro, inserendo stampelle di legno, riempendo i volumi con tappi di sughero per alleggerire il peso della scultura realizzando così l’eresia di portare il baricentro oltre le proprie leggi. Opere di Martini come la Donna che nuota sott’acqua sono un modo diverso di forzare la pesantezza imposta dalla scultura in marmo o in bronzo. Come? Rendendo elastica la percezione di fronte a un solido che si rende leggero evocando il movimento.

La mostra dedica una stanza, come va di moda oggi, all’immersione totale in uno spazio dove l’immagine elettronica sembra ricreare l’effetto del nuoto subacqueo della scultura di Martini. Direi che è pleonastico, e in fondo riduttivo della stessa forza espressiva di questa magistrale scultura del 1941-42, che smonta tutti i pregiudizi “classicisti” che ancora pesano su Martini. Così come Eugenio Battisti documentò, in un’opera straordinaria, l’antirinascimento, lo stesso vale per la modernità anticlassica di Martini. E questo, si badi, non per intellettualismo, ma per il carattere dell’uomo Martini, insofferente a ogni falsità e falsificazione.

Opere come Nuotatrice che esce dall’acqua, Atmosfera di una testa o Scomposizione di toro, anni 40, fanno comprendere come Martini cercasse ancora nuove strade e incrociasse così quelle di scultori quasi all’opposto fra loro come Fontana o Matisse; un esempio di architettura-scultura che tende all’astratto ma non varca mai la soglia di non ritorno rispetto all’immagine del corpo umano è il bellissimo bronzo di Saffo, sintesi finale di un pieno che canta però il vuoto che lo ha e quello che a sua volta ricrea nello spazio dello spettatore.

Martini ha le sue tentazioni “primitiviste” frutto di un’assoluta indipendenza espressiva: le vediamo nell’arcaica ed antichistica Chimera quanto nei Leoni di Monterosso, e ancora nella Leonessa e Leone da giardino, opere nelle quali la vena barbarica e anarchica di Martini ha la meglio su ogni obbedienza formale a un modello del passato o a lui coevo. Inventa senza negare la storia. Impressiona vedere accanto a questi gesti eretici, esiti di quella che appunto riconduco a una selvatichezza interiore, opere dove la forma gioca a rendersi terribile e tragica, teatrale in definitiva: sono gessi di metà anni Trenta come il bellissimo La morte dell’amazzone, l’efferato Salomone, oppure, per una sorta di minimalismo, l’ironico Laocoonte, come pure il Ratto delle Sabine, o le Amazzoni spaventate dove l’aggettivo corrisponde alle capigliature, un segno della stessa ironia che Picasso aveva messo dipingendo le due donne che corrono sulla spiaggia del 1922.

Un architetto delle forme è Martini: la forza assoluta del linguaggio e del suo stile sta appunto nella capacità di mantenere una intensità espressiva sia che lavori sul piccolo sia sul grande: così il Presepe del 1926-27 e La moglie del marinaio del 1931, oppure, nella misura maggiore, La veglia (1931-32), e lo stesso Bevitore (1933-36) in pietra che richiama nell’aspetto tanto il mondo rupestre quanto la tragicità delle sculture umane pompeiane. Architettura, così, anche il Torso di giovinetto che, per la forza quasi astratta con cui l’anatomia si struttura in uno sforza procusteo, ricorda la serie dei dorsi che Matisse elaborava in quegli stessi anni; ma, fin dall’inizio, architettura anche l’abbraccio del Figliol prodico del 1927, tema ricorrente e, come nota in catalogo Nico Stringa, certo autobiografico per la persistenza con cui torna lungo gli anni.

Come disse Martini parlando con Scarpa, quando guardi uno scultore greco senti che nella misura piccola la sua opera assomiglia molto a un soprammobile, mentre lo scriba egizio, grande venti centimetri oppure due metri, mantiene intatta la sua carica monumentale, perché il soffio gli viene dall’ispirazione religiosa, profonda, che presiede il gesto dello scultore. In questa frase, dopotutto, c’è anche la confessione dell’origine dell’opera martiniana: una fede nell’arte che supera ogni simbolismo didascalico (ciò che lo rendeva libero anche di fronte alla “religione” del fascismo).

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