lunedì 29 gennaio 2024
Il 29 gennaio del 1944 gli aerei americani colpirono il centro città, dove aveva sede il quotidiano cattolico fondato nel 1896. Un convegno ha ricordato l'esempio della redazione in quei frangenti
La prima pagina de "L'Avvenire d'Italia" del 29 gennaio 1944

La prima pagina de "L'Avvenire d'Italia" del 29 gennaio 1944 - Archivio Avvenire

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Fu un bombardamento, in un certo senso, «casuale», quello su Bologna del 29 gennaio 1944: gli aerei americani avrebbero dovuto dirigersi più a Sud, su Prato, ma le condizioni avverse del tempo li costrinsero a fermarsi prima. Così decisero di bombardare il capoluogo emiliano, centro strategico per la sua stazione ferroviaria, snodo fondamentale del traffico italiano. Purtroppo, le bombe colpirono solo in minima parte la Stazione, ma danneggiarono e distrussero invece molti edifici del centro storico: fra essi, la sede de “L’Avvenire d’Italia”, quotidiano nazionale cattolico fondato nel 1896 dal bolognese Giovanni Acquaderni e che si trovava in pieno centro, in via Mentana, a pochi passi dalla basilica di San Martino Maggiore. Su quel luogo, rimasto fino ad oggi vuoto e senza costruzioni, è stata collocata nel 1993, durante il Congresso nazionale dell'Unione cattolica stampa italiana, una lapide commemorativa, che venne benedetta dall’allora arcivescovo cardinale Giacomo Biffi.

Oggi in occasione dell’anniversario si è tenuto un evento con l'adesione dell'Ucsi, dell'Università Tincani, del Mcl e di “Media memoriae” (cronisti di storie e tradizioni), seguito dalla Messa in San Martino. «Nessun giornalista e nessun tipografo, fortunatamente, perse la vita – ricorda Roberto Zalambani, consigliere Ucsi e coordinatore nazionale di “Media memoriae”, - e dopo il primo momento di sgomento, subito venne la reazione: la ripresa delle pubblicazioni nella sede provvisoria di Carpi». Un luogo, questo, importante per i giornalisti cattolici: lì, infatti fu consigliere mandatario de “L’Avvenire d’Italia” Odoardo Focherini, che per il suo aiuto agli ebrei fu poi catturato e internato a Hersbruck, dove morì. Oggi è beato, «uno dei nostri tre patroni, come giornalisti cattolici – sottolinea Zalambani - dopo san Francesco di Sales e padre Tito Brandsma, carmelitano ucciso a Dachau». «Il disastro di quella distruzione – commenta lo storico Giampaolo Venturi - si aggiungeva alle difficoltà della redazione per la scelta di essere reticenti in merito alla situazione bellica e all’occupazione tedesca. E del resto in quel periodo, fra il settembre ’43 e la fine della guerra (e oltre) furono tanti gli interventi in proposito dell’arcivescovo di Bologna cardinale Nasalli Rocca». Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il giornale, «che era diventato importante per l’ampiezza di diffusione e per il sostegno dichiarato dei vescovi, non venne pubblicato dal 9 settembre al 5 ottobre – prosegue - nonostante le pressioni delle Ss tedesche. La direzione, accampando la scusa di varie difficoltà, riuscì ad opporsi alle richieste; poi, il giornale venne pubblicato con cadenza irregolare e su una sola pagina. Con l’avanzare del fronte, e il suo approssimarsi, tutta la situazione diveniva più incerta e difficile. Ma la fermezza mantenuta dal personale del quotidiano, nonostante i rischi, venne riconosciuta alla fine della guerra, con la autorizzazione a riprendere le pubblicazioni con la testata immutata: unico caso in Italia». Un bell’esempio di resistenza cattolica, pacifica ma efficace.

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