martedì 21 settembre 2021
Numerose mostre si concentrano sul contributo delle donne all'arte: è giusto riconoscimento, ma il rischio è di limitarsi a iniziative "di consumo"
Graciela Iturbide, “Conversacion”, Juchitan, México, 1986. Opera esposta nella mostra “Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo” allestita a Forlì

Graciela Iturbide, “Conversacion”, Juchitan, México, 1986. Opera esposta nella mostra “Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo” allestita a Forlì - Musei San Domenico

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Il secolo delle donne, della loro emancipazione lenta, difficile, ma voluta e perseguita con determinazione ed enormi passi avanti, ha avuto nell’ambito artistico una sorta di spazio d’apripista verso questa liberazione. L’arte come spazio d’avanguardia per la donna. Le ricerche di Marija Gimbutas, archeologa e antropologa di origini lituane, erano tese a mostrare l’esistenza di un matriarcato primitivo (il Mutterrecht di Bachofen) che le scorrerie dei popoli indoeuropei aveva demolito. Non è difficile comprendere che si tratta di due modelli fondati sulla opposizione di mascolinità e femminilità. Naturalmente, si tratta di una lettura semplicistica, ma non sorprenda leggere già nel 1912 dentro il Manifesto della donna futurista di Valentine de Saint Point che «è assurdo dividere l’umanità in donne e uomini: essa è composta soltanto di femminilità e mascolinità... poiché ogni donna deve possedere non solo virtù femminili, ma qualità virili, altrimenti è una femmina. L’uomo che possiede solo la forza maschia, senza l’intuizione, non è che un bruto». Se ne può parlare anche oggi, certo è che le donne che tennero banco tra i futuristi non furono tante, a parte la consorte di Marinetti, Benedetta Cappa, pittrice di un certo genio nuovo, si possono ricordare Regina e Maria Ricotti che con Prampolini diresse a Parigi il Théâtre de la Pantomime futuriste; ma anche nel surrealismo sembrano non essere molte quelle che ebbero accesso al regno del Padre Breton, notoriamente piuttosto restio a concedere spazio alle donne. Meret Oppenheim, musa e artista celebrata da Man Ray, rimase soltanto una donna finché Giacometti, affascinato dalla sua imagerie, non la introdusse nel circolo surrealista. Eppure, il censimento compiuto da una pittrice americana, Penelope Rosemont, alla fine degli anni 70, rivelò che, sul piano internazionale, le donne che si ispiravano al surrealismo erano ben di più, centinaia. Oggi molti muri sono caduti e se un tempo si poteva ancora affermare che nei secoli le artiste capaci di competere coi maestri che fecero la storia dell’arte fossero ben poche – tutt’al più si ricorreva allo stereotipo delle donne offese che si ribellano al loro destino, da Artemisia a Frida Kahlo – ora le cose sono molto cambiate (un censimento aggiornato dal Rinascimento fino all’Ottocento potrebbe citarne molte decine) e i pregiudizi si sono in parte liquefatti. Ma ecco che negli ultimi anni il luogo comune quasi smantellato rischia di produrre nuove storture, e in una direzione che nulla ha che fare con la celebrazione del genio femminile; il nostro tempo infatti vede la proliferazione di mostre a grappolo dedicate a questa 'metà' dell’arte: a Milano si sono chiuse a Palazzo Reale Le signore dell’arte. Storie di donne tra ’500 e ’600 e Divine avanguardie. Le donne nell’arte russa. Così a Parigi, al Musée de Luxenbourg, è finita da un mese la splendida mostra Peintres femmes, 17801830. Naissance d’un Combat, curata da Martine Lacas (che ha raccolto le opere di 40 pittrici francesi; in solo mezzo secolo di storia, bisogna ammettere che si tratta di una bella concentrazione di genio femminile che smonta i pregiudizi più resistenti, considerando che è anche l’epoca che vede l’avvento della borghesia); sul fronte contemporaneo, fino a qualche settimana fa il Centre Pompidou proponeva una esposizione con circa 500 opere eseguite da 106 artiste sotto il titolo Elle font l’abstraction, contro l’idea, bizzarra, che l’arte astratta sia cosa da uomini. E anche al Museo d’arte moderna di Parigi si è tenuta la rassegna The Power of My Hands (Il potere delle mie mani) con sedici artiste africane intese a denunciare la difficile condizione femminile in Africa. Se da qualche decennio è partita la 'riscoperta' di alcune donne che hanno lasciato un segno nella storia dell’arte (a Trento è ora indagata l’opera di Fede Galizia, ma recentemente a Firenze è stata rivalutata la suora-pittrice Plautilla Nelli, e gli studi hanno riscoperto Ginevra Cantofoli, discepola di Elisabetta Sirani; è ricco il parterre delle varie Giovanna, Sofonisba, Lavinia, Marietta, Caterina, Roldana, Lucrezia, Antonia, Irene, Properzia...), ma ultimamente, oltre alle grandi figure del Novecento – dalla Oppenheim alla Goncharova e alle superquotate Georgia O’Keeffe e Louise Bourgeois –, si specula forse un po’ furbescamente su un genio femminile dato come tale senza alcun giudizio critico, per ragioni che rispondono anzitutto al marketing, cioè all’industria culturale. La donna è un argomento che fa vendere il prodotto estetico, ma questo dice anche quanta forza 'commerciale' venga attribuita al femminile dagli organizzatori di mostre. Si tratta quindi di essere spettatori selettivi senza cedere alla facile adesione a operazioni che ricadono nella così poco apprezzabile categoria delle 'mostre di consumo' che mirano a far cassetta su un tema sensibile. Questa sarebbe una distorta emancipazione, ovvero lo sfruttamento di un soggetto che nella storia ha subito spesso, in modi ben più duri, un trattamento che mentre negava la parità di diritti sociali dall’altra esaltava, dalla pubblicità al cinema, la 'donna oggetto'. Mettersi troppo in mostra espone le donne a un rischio non meno subdolo.

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