mercoledì 14 luglio 2021
Le sue installazioni riguardavano la memoria, il ricordo, la tragedia del tempo che fugge e l’oblìo
Christian Boltanski nel 2019

Christian Boltanski nel 2019 - Epa/Franck Robichon

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Veli su cui vengono proiettati volti umani come reliquie dell’uomo, veli mossi dalla corrente d’aria creata da un ventilatore. In questa immagine c’è quasi tutta la poetica che Christian Boltanski ha riproposto per buona parte della sua vita d’artista. Ieri, Boltanski è morto di malattia a Parigi, dove era nato il 6 settembre del 1944, da una famiglia di origini ebraiche. Aveva insegnato alla Scuola nazionale superiore di Belle Arti di Parigi e viveva a Malakoff, nell’Île-de-France, con la moglie Annette Messager, pure lei celebre artista. Nella capitale francese ha finito i suoi giorni, all’età di 76 anni, dopo aver affrontato – dal 1968 in poi – i temi del ricordo e della memoria, e dunque anche della morte, facendone il filo conduttore delle sue più note installazioni e delle sue mostre.

L’ultima, di grande rilievo (circa duemila metri quadri di superficie), quella che gli ha dedicato nel 2019 il Centre Pompidou sotto il titolo Faire son temps. Il direttore del museo parigino, Bernard Blistène, scriveva in quell’occasione che Boltanski con la sua opera «testimonia l’accanimento con il quale l’arte tenta di cogliere la vita e lottare contro l’oblio. È innanzitutto l’arte del tempo che passa». È l’arte che segna, come un orologio cosmico, come l’ombra proiettata da una meridiana, il dramma presente nel tempus fugit del verso virgiliano. Boltanski quell’attimo lo fissa e lo rende quasi un’apparizione di spiriti, con immagini di volti lontani, quasi che il passato si fosse mangiato la filigrana dei visi e li mostrasse sfarinati, sfocati, sgranati in fotografie che si rianimano soltanto grazie all’energia impressa dall’artista con i suoi dispositivi-installazione. Una seduta spiritica? No. Una evocazione degli antenati? In un certo senso, ma se dovessimo ritrovare in quelle immagini qualcosa di antico (e non soltanto di vecchio o di rallentato in una sorta di residuo d’oblio) forse dovremmo rivolgerci alle vesti di cui parla Lucrezio un paio di volte nel De rerum natura, mosse dal vento esse comunicano una vita misteriosa.

Nel 2005, al Pac di Milano, nella mostra intitolata Ultime notizie Boltanski presentava alcune installazioni fatte con veli semitrasparenti su cui erano proiettati volti umani il cui effetto era quello di esistenze ormai perdute ma che sembravano vivere grazie alle correnti d’aria create da Boltanski usando due ventilatori (l’opera s’intitolava Entre temps e datava 2003).

Nella sua prima mostra italiana, nel 1997, a Bologna, nelle stanze di Villa delle Rose, una camera era riempita fino al soffitto con abiti usati. Qui la memoria era quella che viaggiava nell’odore che i corpi umani avevano depositato in quegli stracci. Un’opera che, nel 2010, Boltanski aveva riproposto sotto i lucernai del Grand Palais a Parigi, componendo una montagna di abiti di tanti colori – il ricordo andava alla Venere degli stracci di Pistoletto, ma il messaggio era più struggente, perché nelle tracce lasciate dai corpi c’è per Boltanski una memoria tragica ovvero fisica di ciò che passa e non può essere fermato. La tragicità del ricordo emerge anche da un altra installazione italiana, inaugurata nel 2007, quella dove Boltanski ricorda le ottantuno vittime della strage di Ustica con altrettante luci che che si proiettano dal soffitto del Museo accendendosi e spegnendosi al ritmo di un respiro, mentre ottantuno specchi neri circondano il velivolo ricostruito.

Al senso tragico del ricordo l’artista francese aveva dato una forma “autobiografica” nella mostra del Pac già ricordata quando, con l’opera 6 settembre, aveva realizzato per l’occasione, una stanza dove a ciclo continuo sulle quattro pareti veniva proiettato un film a velocità forsennata nel quale correvano le immagini dei fatti notevoli trasmessi dai telegiornali dal 1944 (suo anno di nascita) al 2005. Tutta la storia di sessant’anni, decine di migliaia di fotogrammi, condensata in 4 minuti e mezzo di filmato. Con una sola libertà concessa allo spettatore, quella di farsi “fermo immagine” bloccando la corsa del filmato in un momento qualsiasi. In quell’istante, la memoria coincideva con la scelta dello spettatore che fermando il flusso ripescava dall’oblìo un fatto. Ma era evidente, in quella libertà dagli esiti aleatori, che l’unico atto consentito allo spettatore riesumava un ricordo casuale, di cui egli forse non aveva alcuna memoria o che non aveva affatto segnato la sua esistenza (come, probabilmente, nemmeno quella dell’artista). Una vera follia lucida, che metteva alla prova il bergsonismo e l’idea dell’élan vital come atto di discontinuità nel continuum temporale, cioè come scarto impresso alla inesorabilità del tempo cronologico grazie alla coscienza dell’individuo che diventa tempo qualitativo.

Boltanski a questa possibilità forse non credeva, e a farsi sentire nell’opera è proprio una reminiscenza delle sue radici ebraiche: memoria profonda e psicologia, come percezione tragica della morte. Tuttavia la storia familiare di Boltanski è segnata anche dalla religione cristiana: il padre, medico nato in Ucraina, si era convertito al cattolicesimo, la madre, di sangue corso, era cristiana e fu attiva nella resistenza. Sotto l’occupazione nazista il padre, per le sue radici ebree, pare abbia vissuto per un anno e mezzo nascondendosi sotto il parquet di casa per sfuggire ai rastrellamenti, mentre tutta la famiglia – tra i fratelli di Christian, anche il celebre sociologo Luc Boltanski – visse in continua allerta, dormendo tutti insieme in una sola stanza. L’infanzia dell’artista fu anche segnata da un senso profondo d’isolamento, da una scolarizzazione abbreviata, da una vita soggetta a modi da bohème e dalla frequentazione fin da piccolo degli psichiatri. Christian sviluppò pertanto una inclinazione a vivere il presente alla massima intensità, gli stessi familiari lo spinsero a cogliere l’attimo propizio: «Fai ciò che vuoi. Ti va di disegnare? Disegna. Vuoi dipingere? Fai il pittore». Tutto questo, e quel che poi vivrà nell’adolescenza e nella giovinezza, influenzarono il modo di pensare l’arte di Boltanski, il quale nel 1968 abbandonò definitivamente la pittura per dedicarsi al cinema e alle installazioni, esponendo l’anno dopo alla Biennale di Parigi con Annette Messager e la performer Gina Pane. La maggior parte delle opere pittoriche precedenti questa svolta sembra siano andate disperse o distrutte.

Mezzo secolo di ricerche e sperimentazioni d’avanguardia senza una rigida ideologia, per poi constatare – come confessò Boltanski qualche anno fa –: «io potrei dire in fondo di fare sempre la stessa opera, mi pongo le stesse domande. E sono sempre le stesse risposte quelle che mancano». Negli ultimi tempi aveva lavorato ad alcuni progetti che proseguono il lavoro di scavo nel dramma e nelle ossessioni di esistere: aveva cominciato, su commissione di una Fondazione giapponese, a registrare i battiti del cuore nelle persone, ed era arrivato a comporne alcune decine di migliaia. Stava poi lavorando in Patagonia, in una zona desertica, all’installazione di grandi trombe che sotto l’azione del vento avrebbero emesso il verso delle balene. Boltanski era molto sensibile ai miti: in questo caso, aveva fatto propria la convinzione degli indigeni secondo cui le balene sono le uniche che hanno vissuto fin dai primi tempi dell’universo. A chi gli chiese perché si era proposto una simile impresa, rispose che le leggende oggi contano più delle stesse opere: «Dobbiamo creare leggende. E magari fra qualche decennio si formerà una leggenda dove si dirà che una donna ha sentito cantare le balene nel mezzo della Patagonia». Ancora una volta la memoria dell’arte risponde alla più antica necessità di credere a qualcosa, per allontanare il pensiero della nostra fine: Non omnis moriar.

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