martedì 15 novembre 2022
Con “Il destino di Aghavnì” la scrittrice mette al centro una sorella del nonno scoperta solo nel 2017 da una foto. «Rapite, inserite a forza in famiglie curde e turche, molte accettarono la sorte»
La scrittrice Antonia Arslan

La scrittrice Antonia Arslan - Giorgio Boato

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«In Aghavnì ho rappresentato le moltissime ragazze, giovani donne, donne sposate con figli, che sono state rapite e inserite in famiglie turche, curde, e anche arabe». Donne che hanno accettato il loro destino di essere state strappate alla famiglia nel corso di un genocidio come quello subito dagli armeni nel 1915. Quale sia stato Il destino di Aghavnì (Ares, pagine 114, euro 15,00, in uscita oggi), titolo dell’ultima fatica letteraria di Antonia Arslan, non è noto al lettore e non lo sa neppure l’autrice che, venuta a conoscenza cinque anni fa dell’esistenza di un altro membro della famiglia Arslanian, ha voluto aggiungere con questa storia un rivolo al grande fiume del pluripremiato La masseria delle allodole e del seguito La strada per Smirne. Luoghi e nomi sullo sfondo della narrazione sono gli stessi della Masseria. Ma stavolta Arslan ha dovuto lavorare su poco e niente. Si è imbattuta, infatti, in Aghavnì per la prima volta nel 2017, quando un cugino del New Hampshire, che l’ha rintracciata dopo il successo internazionale della Masseria, le mostrò una foto con tre ragazze vestite uguali, stessa stoffa, stessa foggia dell’abito, ma con minime differenze: un collettino, una cintura. Erano le sorelle del nonno della scrittrice. Due le erano già note e le aveva ritratte nel fortunato romanzo portato sul grande schermo dai fratelli Taviani. Della terza apprese solo in quel momento il nome e che si trattava di «quella che scomparve e non fu mai più vista», come le spiegò il cugino.

Una ragazza armena in abiti arabi, 1900 circa

Una ragazza armena in abiti arabi, 1900 circa - Library of Congress

Da quel momento questa figura non l’ha più abbandonata, apparendole persino in sogno in un momento di malattia. Presa da altri impegni, l’italianista, già docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, ha iniziato solo nel settembre di quest’anno la stesura del romanzo breve e l’ha terminata in un mese. « L’ho scritto d’un fiato – dice ad Avvenire la scrittrice di origini armene, il cui nonno si è salvato dal genocidio perché fermato in Italia dallo scoppio della Prima guerra mondiale –. Era pronto nella mia testa. Io di solito faccio così: rimugino a lungo, ma poi non faccio tante versioni. Questa figura della fotografia che era sì reale, ma un po’ evanescente, ha preso sempre più corpo, è divenuta autentica». Aghavnì, 23enne, con il giovane marito e i due figlioletti, viene con tutta probabilità rapita dal capo di un villaggio di pastori curdi che vive sulle montagne e alla lontana sembra un don Rodrigo anatolico. La colpa? Essere degli armeni, che particolarmente nelle campagne erano vessati dai curdi, e aver levato la voce dopo che il curdo aveva investito e ucciso un mendicante cieco. I fatti avvengono a quindici giorni dall’inizio del genocidio armeno, nel maggio 1915. E subito prendono una piega tragica: il marito Alfred Fabrikatorian – intellettuale sensibile e dallo scarso senso pratico, ma imbevuto di virile epica guerriera tenta la fuga e viene ucciso. I bimbi vengono affidati alle parenti del rapitore e Aghavnì, il cui nome significa “Colomba”, diventa donna di servizio. Il romanzo si conclude con un segno di speranza nello spirito del Natale.

Perché, come emerge dal suo romanzo, gli armeni perseguitati non sembrano perdere fiducia in Dio?

Bisogna pensare che il popolo armeno è stato il primo che si è convertito al cristianesimo. Poi c’è stato un evento che si è impresso nella memoria collettiva in modo straordinario: la battaglia del 451 d.C., in cui gli armeni furono sconfitti dai persiani. Ma il re persiano fu tanto colpito dal loro valore da lasciargli libertà di culto, caso rarissimo all’epoca. In qualche modo, anche successivamente e fuori da questa visione un po’ mitica, gli ameni hanno sentito di essere un popolo martire. Nell’Impero ottomano erano liberi nel culto, rispettati - anche se non allo stesso livello dei turchi - ed erano riconosciuti come nazione. Il governo della comunità era affidato al capo spirituale, il katholicos. E questo rappresentava una protezione. Durante il genocidio, comunque, non serviva nemmeno convertirsi all’islam, si veniva deportati in quanto etnicamente armeni.

Nel romanzo appare spesso un angelo muto. Cosa simboleggia?

Non lo so, ha voluto venir fuori. Però so che è una presenza benefica, che non può interferire più di tanto, ma può assistere. Implicitamente dare un filo di sicurezza, del calore. Tra l’altro è presente anche in un’altra mia opera, Il libro di Mush, il cui titolo in inglese è proprio Silent angel.

Quale destino ha immaginato per questa figura di donna?

Il discorso va inserito in quello del Natale. Lei è una donna forte, che accetta. La chiave del discorso è l’accettazione. In Aghavnì ho rappresentato le moltissime ragazze, giovani donne, donne sposate con figli, che sono state rapite e inserite in famiglie turche, curde, e anche arabe. Addirittura per evitare questo le madri ferivano loro le guance e mettevano sostanze per provocare la suppurazione della pelle in modo che sembrassero brutte e non le prendessero. Donne che, però, in qualche modo hanno accettato la loro sorte. E hanno educato i loro figli, ai quali non hanno fatto pesare la tragedia che avevano vissuto. Sono andate avanti. Non sappiamo come. Ma quello che sappiamo è che oggi, si calcola, almeno un quarto dei turchi ha sangue armeno nelle vene. Un’avvocata turca ha scritto un libro, Heraanush mia nonna, dopo aver scoperto che questa era armena ed essere andata alla ricerca delle proprie origini. Sono i cosiddetti figli della spada, cioè concepiti dopo che la spada aveva compiuto il suo lavoro.

Eppure, nonostante queste affinità, in Turchia faticano a riconoscere il genocidio.

Non vogliono. Dopo cento anni di negazionismo, portato avanti con tutte le forze di una grande nazione, è difficile che dicano: scusate abbiamo sbagliato. Quello dei Taviani, grazie alla loro bravura e ostinazione, è l’unico bel film che sia uscito sul genocidio. Mentre sulla Shoah ne sono usciti tanti.

La letteratura sul genocidio si è sviluppata più nella diaspora che in Armenia. Perché?

Sì, è così. E il motivo è semplice. Gli armeni della diaspora sono tra i sei e gli otto milioni e vivono prevalentemente in Francia, Stati Uniti e Russia. In Italia siamo pochi, 5mila contro i 600mila della Francia. E sono i discendenti di quel quarto della minoranza armena nell’impero ottomano che è sopravvissuta al genocidio. Sono armeni occidentali, che parlano la variante occidentale della lingua. Mentre quelli orientali si sono rifugiati sulle montagne del Caucaso, nella zona che era sotto l’Impero dello zar e che è l’attuale Armenia. Sono quelli che non hanno subito il genocidio. Almeno in parte, perché Stalin fece una campagna di rimpatrio degli armeni della diaspora soprattutto da Paesi come la Romania e la Bulgaria. Anche lì, comunque, quei fatti sono molto sentiti. A Erevan c’è un monumento molto bello e commovente, la Collina delle rondini.

Cosa è stato il genocidio?

Nella culla degli armeni, l’attuale Anatolia, nella Turchia orientale, vivevano in circa due milioni. Gli storici concordano sul fatto che un milione e mezzo sono stati uccisi. Le modalità di quello sterminio sono davvero agghiaccianti. Quando si parla della Shoah, bisogna ricordare che l’eliminazione di masse così elevate con tale razionalità perversa è nata in Anatolia. Dove c’era la presenza dei militari tedeschi, che - alleati dei turchi - hanno visto tutto e sono stati anche complici, attivi o passivi. Era la prova generale di quello che sarebbe accaduto dopo, Hitler lo ha detto esplicitamente.

Il finale, ispirato a fratellanza, riconoscimento reciproco, rispetto, può essere un messaggio di speranza anche per l’oggi?

Lo è. E parte da un dato di realtà. Cioè che i curdi hanno chiesto scusa agli armeni. Se si prende atto della realtà con occhio rasserenato, come hanno fatto i tedeschi e come è accaduto in Ruanda, alla fine ci si ritrova e ci si capisce. Tant’è vero che molti turchi anni fa hanno chiesto scusa e fatto cose bellissime. Adesso sotto Erdogan non lo possono più fare. Ma l’importante è sempre partire dalla persona umana, non dalle astrazioni. O dalle eccessive semplificazioni, come è avvenuto purtroppo spesso nel terribile conflitto attuale tra Russia e Ucraina.


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