La sociologa Chiara Giaccardi - Cristian Gennari/Siciliani
Mi inserisco nel dibattito acceso dall’articolo di Pierangelo Sequeri e rilanciato da Roberto Righetto su queste pagine, ma risuonato anche in altre testate cattoliche, perché penso che sia proficuo non lasciar cadere questa occasione e trasformarla in un metodo di riflessività corale. Un momento di riflessione lucida e onesta, credo, è oggi sempre più urgente e necessario per la Chiesa - intesa nella suo senso autentico, cioè allargato: chierici e laici, ovvero il popolo che si riconosce in una promessa e in una alleanza. Perché fede non è possesso di certezze ma fides, ovvero corda, legame, affidamento. Dove l’istituzione, per non implodere, ha bisogno della linfa vitale del mondo, della società civile, dei laici impegnati, dei credenti e dei non credenti con i quali si possa avviare un dialogo costruttivo. Senza l’apporto di una dimensione istituente (il mondo laico, i movimenti), l’istituito (la Chiesa istituzione) diventa asfittico e si estingue; senza istituzione, d’altra parte, la dinamica istituente si dissipa e rimane sterile.
Lo affermava chiaramente la Gaudium et Spes al numero 44 (eloquentemente intitolato “L’aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo”): «la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano». Il dialogo, persino le provocazioni, non sono mai solo minacce, ma possono farsi occasione di approfondimento, di rilettura della propria vocazione e missione alla luce dei “segni dei tempi”.
E un segno dei tempi che non può essere trascurato, nonostante tutti i tentativi di rimozione (in senso psicanalitico) è quello di cui già parlava decadi fa Michel De Certeau: «un’esperienza tellurica si sostituisce alle protezioni offerte dal “corpo di senso” che garantiva un ‘universo senza smentita» (Debolezza del credere). L’evidenza sociale del cattolicesimo è crollata, e c’è anche una opportunità di rigenerazione in questo: in ogni caso, da qui bisogna ripartire.
Purtroppo, e in questo concordo pienamente con gli iniziatori di questo confronto, la Chiesa (istituzione) è stata spesso poco capace o poco motivata a leggere i segni dei tempi, intesi dualisticamente come “accidenti” a fronte di una “sostanza” ritenuta immutabile e insieme da preservare difensivamente. Ma questo dualismo è, a mio avviso, doppiamente blasfemo, cioè offensivo per quel Dio (Padre) che si vorrebbe difendere. In primis perché il mistero dell’incarnazione (mysterium, una verità fondamentale che non può essere contenuta nelle parole, che chiede silenzio e contemplazione) ci dice di un’alleanza tra cielo e terra, materia e spirito, maschile e femminile, paternità e filiazione, gesto e parola, singolare e universale, storia ed eternità che non può in alcun modo sfociare in una separazione, tantomeno in una contrapposizione. Per questo, ed è la voce autorevole di Romano Guardini ad affermarlo, «il dualismo è il peccato originale metafisico» (Opposizione Polare). Eppure di quanto dualismo sono impregnati i discorsi della, e sulla Chiesa?
Non ultimo quello relativo alla spaccatura tra “conservatori” e “progressisti”: categorie di un discorso pubblico mediatico sempre più polarizzato e banalizzato che la Chiesa ha disastrosamente fatto proprie, anziché confutare il metodo che le ha prodotte. L’argomento per smontare questa sterile dicotomia è proprio nella forza simbolica del katà olòs, cioè “relativo all’intero”, che è il vero significato della parola “cattolico”: non un universale astratto, ma una concretezza accogliente delle differenze. Che non solo non costituiscono una minaccia, bensì sono condizione stessa, ineliminabile, per la comunione. L’uno che coincide con se stesso, l’omologazione - tanto praticata anche dalla cultura laica, paradossalmente in nome della tutela delle differenze - sono vie di totalitarismi, fanatismi, fondamentalismi; la comunione può avvenire solo tra diversi, che però non trasformano la differenza in separazione. Il mistero della trinità ci dice questo: c’è comunione solo dove c’è differenza, e la differenza non ha come esito inevitabile la separazione (o i cattolici sarebbero politeisti). La diaforà (differenza) non diventa per forza diairesis (divisione), e far collassare i due termini è frutto di ignoranza, o di ideologica malafede; che poi produce diáspasis, decomposizione, perché trasformando la differenza in divisione attraverso il rifiuto dell’alterità noi perdiamo la vita.
La Chiesa (istituzione) ha paura di confrontarsi con “altro” (con il femminile in primis). Ha paura della pluralità dei carismi. Continua a separare dottrina e carità, un dualismo a mio avviso mortifero (che, come scriveva Guardini, trasforma la dottrina in “gelido formalismo”, estraneo alla vita). Dio è comunione (tre persone distinte ma non separate) e padre: i padri amano i figli e desiderano la loro libertà. Il cristianesimo è la religione della libertà, dove la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge, dove il padre è misericordioso e non giudice. Il mondo (non solo i cattolici), che va sempre più, in ogni ambito, verso la verticalizzazione, la proceduralizzazione, il governo degli algoritmi, ha bisogno di una parola di libertà. La Chiesa istituzione è in grado di dirla? Papa Francesco sta facendo un cammino di dialogo col mondo, ma le reazioni più ostili ai processi che ha avviato vengono proprio da una parte della Chiesa, in chiave difensiva di uno status quo che diventa sempre più anacronistico. Come anacronistica, e rivelatasi infatti fallimentare, era l’idea del “progetto culturale”, una sorta di piano controegemonico condotto in chiave per lo più ideologica (ma il cattolicesimo non è una ideologia tra le tante!), rassicurante, con nessun impatto culturale. Il mondo è un “deserto che chiama”, scriveva Guardini, e quella del cattolico è una “combattuta fiducia”, non una collezione di formule rassicuranti.
Tanti laici (e laiche) sono impegnati in un meritorio sforzo di contribuzione culturale, con esiti disuguali, con la difficoltà spesso a uscire dai personalismi (che accrescono la frammentazione, l’entropia comunicativa, alla fine l’irrilevanza). Ma anche con qualche fermento di vita che è prezioso e sempre più necessario. Se la Chiesa istituzione non abbraccia questi apporti lasciandosi ispirare per un dialogo costruttivo col mondo e se non ha il coraggio di liberarsi di un apparato concettuale dualista, radicato nella cultura greca più che nel Vangelo, difficilmente riuscirà a non soccombere al movimento tellurico che già l’ha scossa radicalmente.
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