venerdì 3 luglio 2020
Tra il 1964 e il ’65 lo scrittore torinese tenne una rubrica sul settimanale “Tempo” in cui inviava missive aperte e assai critiche anche a personaggi del mondo del calcio. La raccolta in un libro
lo scrittore e giornalista sportivo Giovanni Arpino (1927-1987)

lo scrittore e giornalista sportivo Giovanni Arpino (1927-1987)

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C’è stato un tempo in cui si scrivevano cartoline dal Mundial o dal Tour, come faceva Gianni Mura agli amici: «Saluti da Mont Saint-Michel... Gianni». E poi c’erano le lettere, quelle al Guerin Sportivo che lo scrittore più irregolare delle patrie lettere, Luciano Bianciardi, era capace di inviare a se stesso con tanto di risposte alle dieci domande poste dai lettori (spesso illustri, da Montanelli a Tognazzi) nella sua rubrica anarchica il “Fuorigioco mi sta antipatico”. Ma soprattutto ci sono state le Lettere scontrose (Minimum fax, pagine 399, euro 18,00) del sublime narratore – non ancora del tutto letto e compreso – Giovanni Arpino che, fra il 1964 e il ‘65, pubblicava sul settimanale Tempo diretto da Arturo Tofanelli. Il Life all’italiana, in cui il visionario torinese (era nato a Pola nel 1927, visse a Bra e poi a a Torino dove morì nel 1987) con «spirito ingenuo e non genoflesso» – come sottolinea in postfazione al volume il finissimo “arpinista” Bruno Quaranta – verga e spedisce quelle missive per «una sana curiosità, un normale buon senso; una elementare esigenza di giustizia, un minimo di civile indignazione». Non fa sconti a nessuno l’indignato speciale Arpino. Non salva neppure il “Mattatore” Vittorio Gassman, al quale rimprovera l’incapacità di dire «no» alle lusinghe dell’allora fiorente industria cinematografica che lo adulava quanto il pubblico acritico e stregato, accettando di tutto e per di più senza rendersi conto che «Lei (Gassman) pilucca le briciole di un piatto stanco, a cui assai di rado ha portato qualcosa di personale ». Il “Mattatore” la prese a male e gli rispose furioso, in privato, perché l’unica risposta alle 52 Lettere scontrose gli giunse dal Principe della risata Totò che scriveva: «Se le dico che mi sono venute le lacrime agli occhi mi crede?», e poi ringraziava sentitamente «il letterato illustre e romanziere finissimo», firmato Antonio De Curtis.

I 52 mittenti di questa raccolta pregiatissima (un plauso a minimum fax), vanno dalla “A” di Amintore, Fanfani, alla “S” di Francoise, Sagan, passando per la “P” di Piovene: il conte Guido da Vicenza che per primo indirizzò l’amico Giovanni alle pagine sportive de La Stampa. E come un Salvadore, il terzino dell’amata Juventus, Piovene lo difese dagli attacchi dell’invidiosa congrega degli intellettuali italici che probabilmente non gli perdonavano l’encomio pubblico ricevuto da Eugenio Montale per la La suora giovane (romanzo del 1959) e ancor meno avevano digerito il Premio Strega che gli fu assegnato nel ‘64 per L’ombra delle colline. Erano anni in cui la nostra provinciale intellighenzia non ammetteva nei suoi salottini l’intellettuale affetto dalla febbrile e sminuente passione per il calcio. «Forse gli stadi hanno aiutato Arpino ad avvicinare di più la sua figura di scrittore a personaggi e a mestieri che non hanno nulla a che fare con quello dell’uomo di lettere», spazzava in tribuna Piovene. L’invasione di campo di Arpino suscitò anche qualche gelosia da parte dello scriba massimo dello sport, Gianni Brera, che in principio considerava il fraterno Arp «il mio Nobel personale », salvo poi lasciarsi sfuggire a Guido Gerosa un commento sull’Arpino giornalista sportivo paragonabile a una firma di terza fila del Giorno. Fine dell’amicizia tra i due. Così come un po’ del vetriolo spruzzato sulle colonne di Tempoad Arpino crearono un bel po’ di insane inimicizie. A cominciare dal “Mago” Helenio Herrera investito con quel «non mi piace più quest’Inter così accasermata, mi dà fastidio, ne riconosco i pregi ma mi sembra di avvertire qualcosa nel motore, un fruscio maligno». Era la grande Inter in cui il baluardo del difensivismo herreriano, Giacinto “Magno Facchetti”, confessò: «Non leggevo romanzi prima di conoscere Arpino. Ho cominciato dai suoi e sono andato avanti con gli altri, italiani, stranieri...». L’effigie leggendaria del Facchetti in fuga è la foto di copertina di Azzurro tenebra, il romanzo (edito nel ‘77) sicuramente più originale sul mondo del calcio nazionale. Arpino l’aveva abbozzato da inviato sul fronte della disfatta mondiale di Germania ‘74, stanziandosi tra i due «epicentri: il Neckarstadion di Stoccarda, a un passo dal fiume che fu di Hegel e dei poeti romantici, e il ritiro di Ludwigsburg che ospita la Nazionale italiana, un castello sperduto nei boschi in cui bruciò nell’orgia wagneriana, il sogno decadente di Ludwig, Luigi II di Baviera», scrive l’altro ultra-arpinista Massimo Raffaeli nel saggio La poetica del catenaccio (Italic).

Nelle Lettere scontrose si ritrova lo stile sublime e lo stiletto dialettico di Azzurro tenebrain cui kantianamente distingue tra le categorie delle «Jene», i sobillatori cinici che alimentano il mito calcistico e le «Belle gioie», razza infima di ipocriti “costruttori di alibi” che garantiscono la proliferazione o quanto meno la conservazione del sistema stesso. Un sistemacalcio che già alla metà degli anni ‘60 iniziava ad essere inquinato dal malcostume dilagante. E la violenza verbale degli spalti, nel decennio successivo sarebbe esplosa in quella terroristica curvarola. Arpino combatte i primi segnali della rabbia da ultimo stadio e in Lasciate giocare Pascutti si erge a difensore dell’ala “irascibile” del Bologna campione d’Italia (stagione 1963–’64) «fischiato in tutti gli stadi» per via di un atto venale compiuto a Mosca, durante una gara con la Nazionale. Da quel momento il “testina d’oro” Pascutti divenne il capro espiatorio della miopia popolare che non riusciva a vedere ciò che ad Arpino invece appariva chiaro: la bontà dell’uomo che non beneficiava della «solidarietà professionale tra i moderni gladiatori della pedata» e questa si rifletteva poi nell’odio diffuso delle gradinate. «Giochi e ignori i fischi (Pascutti). Mi creda l’antidoping lo meritiamo solo noi spettatori seduti e fanatici. Siamo noi i traviati, i malati di “matta bestialità”». Una bestialità da cui era immune l’autoritario signor Concetto Lo Bello. L’unico esemplare di «giacchetta nera» che sia riuscito a sfuggire al destino che toccava in sorte a ogni direttore di gara, cioè «essere a galla alla domenica e sparire nel più grigio anonimato ogni lunedì». Il «Tiranno di Siracusa» sfuggì a questa sorte diventando personaggio di primo piano. Il «Principe del fischietto» fu anche sindaco e grande animatore sportivo della sua città, punto di riferimento della Dc in Sicilia: eletto deputato e confermato per tre legislature. Ma all’onorevole Lo Bello, Arpino nella sua lettera acuminata contesta un atteggiamento di riguardo quando «si rivolge a Rivera, a Fogli, o a Suarez o ad Angelillo, cioè ai grandi stilisti o “samurai” del calcio moderno», mentre adotta «invece un tono, uno stile del tutto diversi quando deve redarguire una mezza figura, una pecora nera conosciuta (e quindi più perseguitata che anticipata) per i suoi calcioni, o qualche brocchetto di scarso nome, non ancora sugli scudi delle pagine sportive». Una bocciatura parziale a Lo Bello, mentre aveva “condannato” definitivamente ben prima della “Corea italiana” – il flop ai Mondiali del ‘66 – l’«eccentrico» e «semigovernativo » ct Mondino Fabbri, per le sue selezioni da azzurro tenebra, tanto da intimargli: «Da un Commissario unico pentito può sempre uscire un buon Commissario in seconda, un buon allenatore, un sagace esperto. Purché la penitenza sia sincera, sofferta e non troppo breve».

Mantenendo fede al suo spirito democratico, alla fine il fustigatore si concede un capitolo di tenera “idolatria” nei confronti del cabezon Omar Sivori. Il “10” della Juventus anni ‘60 che preconizzava quel Diego Armando Maradona segnalatogli (18enne) dal “fratello argentino” Osvaldo Soriano, il quale gli sarà eternamente riconoscente a vita per aver fatto scoprire ai lettori italiani il suo splendido Triste solitario y final (pubblicato nel 1974 da Vallecchi e recensito da Arpino con entusiastica meraviglia). Arpino ha amato il Sivori cinico genio ribelle juventino, a cui il pubblico torinese «tra i più equilibrati d’Italia perdonavano volentieri ogni atteggiamento borioso, ogni soperchieria a danno altrui», ma è ammaliato dall’Omar napoletano. Il Sivori che a fine carriera, tradito nell’orgoglio dalla Juve di «Herrera secondo» il paraguayano Heriberto, se ne va esule al Napoli dove si mette al servizio della squadra. È quasi commovente il ritratto del vecchio campione diventato meno veloce e imprevedibile ma più generoso «corretto, paziente, elegante, malgrado gli eterni calzettoni a fisarmonica sulle caviglie e i calzoncini che sembrano sempre di una misura in più: il miglior operaio di palla apparso su un campo di gioco». Sono gli ultimi scampoli di gloria, ma Arpino coglie attimi di eterno e quella «sua aria di scugnizzo riuscirà forse a imbrogliare per molto tempo i compleanni, a evitarli in dribbling come i birilli. Forza Omar! ». Visionarietà dell’uomo e dello scrittore che sapeva scrutare orizzonti lontani, e per questo «vittima di ogni attualità possibile», come sottolinea Bruno Quaranta. Arpino, bracconiere di storie umane che ha amato il calcio quanto il cinema. E al grande schermo ha donato tre opere La suora giovane (regia di Bruno Paolinelli), Un’anima persa e Il buio e il miele diventato il Profumo di donna (entrambi diretti da Dino Risi) in cui ci piace pensare che il protagonista, Vittorio Gassman, si sia riconciliato con Arpino. Anche Al Pacino deve dirgli grazie per aver vinto il suo unico Oscar con Scent of a woman, il remake tratto da Il buio e il miele . Polemista da Oscar Arpino, diede del «patetico» a Pier Paolo Pasolini quando questi si augurava una sconfitta di Nino Benvenuti, onde evitare «una volta per sempre delle false consolazioni ai bassi salari». Messo alle corde rispose con un gancio sonoro a PPP mandandolo ko: «Usare lo sport come bersaglio è arma vecchia, è argomentazione qualunquista, tipica presso certa sociologia avventata». Arpino è stato un grandissimo narratore e a quelli che ancora oggi non lo annoverano tra i “poeti del gol” dedicherebb questi versi: «Andiamo avanti con le antiche ironie / noi amanti / delle sottili cose / fuggite».

Giovanni Arpino

Lettere scontrose 52 lettere e una risposta

minimum fax. Pagine 399. Euro 18,00

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