domenica 20 marzo 2011
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Il Papa ci andrà la mattina di domenica prossima 27 marzo, alle Fosse Ardeatine. Benedetto XVI ha accolto l’invito dell’Associazione nazionale tra le Famiglie italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria (Anfim) per visitare in forma privata il sacrario nel 67° anniversario dell’eccidio; Papa Ratzinger sarà così il terzo Pontefice a recarsi nelle cave di tufo lungo la via Ardeatina dove, il 24 marzo 1944, 335 civili e militari italiani (tra cui 75 ebrei) furono trucidati dai nazisti come rappresaglia per l’attentato che il giorno prima, in via Rasella a Roma, aveva causato la morte di 33 Ss. Il primo fu infatti Paolo VI, il 12 settembre 1965; 17 anni più tardi, il 21 marzo 1982, toccò a Giovanni Paolo II che nel 38° anniversario della strage disse nel suo discorso: «Sono venuto per ascoltare le parole, forti e chiare, degli scomparsi, vittime della logica irrazionale e dissennata della barbarie omicida. Qui, dove la violenza si è scatenata in smisurata follia, essi invitano tutti alla solidarietà, alla comprensione, e ci assicurano che la vittoria definitiva sarà quella dell’amore, e non quella dell’odio». La visita di Benedetto XVI sarà particolarmente significativa, visto che sarà un Papa tedesco a recarsi là dove i suoi connazionali compirono una fra le più agghiaccianti rappresaglie dell’ultima guerra. Dopo la preghiera del Papa, reciterà un salmo per le vittime anche il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Sarà presente inoltre il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, già nunzio apostolico in varie nazioni e figlio di una delle vittime delle Ardeatine, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che dopo l’8 settembre 1943 era tra i responsabili italiani di Roma come «città aperta». Entrato però in clandestinità per evitare l’arresto, nel gennaio 1944 il funzionario fu arrestato e portato nel carcere di via Tasso: dal quale vennero presi molti dei prigionieri destinati alla rappresaglia consumata nelle cave di pozzolana delle Ardeatine. «Dolori del genere restano per sempre – afferma oggi il figlio cardinale, che ricorda ancora il calvario affrontato per il riconoscimento della salma del padre, dopo la liberazione di Roma nell’estate 1944 –. Ma non c’è senso di vendetta: umanità significa anche perdonare. La giustizia fa il suo corso, infierire non serve a niente».Fino a quel 23 marzo 1944, Roma era stata una città occupata con durezza e ferocia dai tedeschi. Dopo aver piegato, l’8 settembre, la resistenza popolare di militari e civili a porta San Paolo e dopo il rastrellamento del ghetto e la deportazione degli ebrei nei lager, si era intensificata una campagna di terrore con retate continue, arresti di antifascisti o ritenuti tali, crudeltà e sevizie, mentre le condizioni di vita della popolazione, stretta tra la fame e la paura, diventavano sempre più insostenibili. Scattava però un’estesa rete di solidarietà, d’accoglienza. Parrocchie, conventi, monasteri (anche quelli femminili di clausura) aprivano le loro porte a ebrei,  renitenti alla leva, antifascisti e fascisti «pentiti». Nel palazzo del Laterano, che godeva dell’extraterritorialità, avevano trovato rifugio non pochi capi militari della Resistenza e politici come De Gasperi e Nenni. All’interno del Comitato di liberazione si era intanto costituita una Giunta militare. Ma aveva più funzioni di coordinamento che compiti operativi. La Resistenza vera e propria, nelle sue diverse forme (dai sabotaggi al rifornimento di armi, al reperimento dei mezzi finanziari, alla propaganda, fino agli attentati terroristici) era affidata con ampia autonomia ai gruppi, partitici e no: il Centro X, gruppo militare clandestino badogliano al comando del colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, i Gap (Gruppi di azione patriottica) del Partito comunista, con un proprio comitato militare guidato da Giorgio Amendola, formazioni minori come i trotzkisti di «Bandiera Rossa», i cattolici comunisti di Rodano e Ossicini, i cristianosociali di Gerardo Bruni. Un fronte articolato dunque, che avrebbe messo a segno non pochi colpi – non solo sabotaggi ed attentati contro obiettivi militari – come l’evasione da Regina Coeli dei socialisti Sandro Pertini e Giuseppe Saragat. Ma che avrebbe subito anche l’offensiva delle Ss del maggiore Kappler con l’arresto (spesso a seguito di delazioni) di non pochi esponenti dei partiti antifascisti e lo stesso Montezemolo. Anche un sacerdote, don Pietro Pappagallo – il suo appartamento era divenuto una base per l’attività clandestina – veniva imprigionato.In questo scenario di sostanziale debolezza del movimento clandestino si colloca l’attentato di un gruppo di gappisti in via Rasella, nel centro di Roma. La data del 23 marzo non era casuale: in quel giorno infatti Mussolini aveva fondato i fasci di combattimento. Come tutti i giorni alle 14, un reparto di soldati tedeschi percorreva le solite strade del centro; i militari non fecero caso a un carretto delle immondizie contenente un forte carico di esplosivo. Il partigiano Rosario Bentivegna accese la miccia, mentre con perfetta sincronia altri gappisti lanciavano bombe e ingaggiavano uno scontro a fuoco con la retroguardia tedesca. Trentadue soldati morti (un altro sarebbe deceduto poco dopo); nello scoppio perivano anche un ragazzo che passava nella via e una donna. Le reazione del comando tedesco, che probabilmente non s’aspettava un attacco così cruento, fu terribile ed immediata. Lo stesso Hitler avrebbe vagheggiato addirittura la distruzione del quartiere, comprendente il Quirinale, oltre a «pretendere» la fucilazione di 50 uomini per ogni soldato ucciso. Una richiesta che le stesse autorità germaniche – il feldmaresciallo Kesserling e Kappler – avrebbero ricondotto alla pur pesantissima rappresaglia di 10 italiani per ogni militare (applicata a Roma in quei mesi in un solo caso). Da Regina Coeli e dal carcere tedesco di via Tasso venivano prelevati – con la collaborazione del questore repubblichino di Roma, Caruso – prigionieri politici, ebrei, semplici sospettati; una lista di 335 persone (5 in più per un errore di calcolo di Kappler) comprendente anche 38 militari, tra i quali tre generali e Montezemolo. «Ricchi e poveri, medici e avvocati, operai e negozianti, artisti e artigiani appartenenti ad ogni ceto sociale, ed anche un sacerdote» (don Pappagallo, appunto ndr) avrebbe scritto in un suo libro Robert Katz. La rappresaglia poteva essere evitata se gli attentatori si fossero presentati entro le 24 ore successive. Questa richiesta – secondo un’autorevole testimonianza – sarebbe però stata affissa nei soli uffici dei comandi germanici, senza bandi pubblici o comunicati alla radio (del resto Kesserling ha sempre negato l’esistenza di un documento del genere). Per evitare la morte degli arrestati, il giovane Ossicini si recava da monsignor Sergio Pignedoli perché sollecitasse Pio XII; il quale – testimonia – «ha cercato di intervenire in tutti i modi possibili ma si è trovato di fronte a un muro invalicabile».E così nel pomeriggio del 24 marzo i 335 venivano caricati su alcuni camion e portati sulla via Ardeatina, fatti entrare in alcuni cunicoli e qui uccisi a gruppi di tre dai tedeschi, mentre don Pappagallo impartiva l’assoluzione tra gli spari. Alle 19 tutto era finito. Dopo il 23 marzo la Resistenza sparisce quasi completamente dalla città; lo stesso sciopero generale del 3 maggio è un totale fallimento. Il 4 giugno gli Alleati sarebbero entrati a Roma. E anche tra le forze politiche della Resistenza si aprì il confronto sia sull’utilità dell’attentato, sia sulla feroce rappresaglia. Finché, dopo un susseguirsi di processi, la Corte di cassazione fece proprio il giudizio del Cln: l’azione di via Rasella era «un atto di guerra» e dunque infondate le accuse contro i gappisti. Nel frattempo le Fosse Ardeatine erano diventate un simbolo.
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