venerdì 1 aprile 2011
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Forse fu una firma della Provvidenza il fatto che san Colombano – uno dei padri della civiltà monastica europea, uno di quegli irlandesi che 'salvarono la civiltà' come ha intitolato un suo fortunato saggio Thomas Cahill – finì la sua mistica cavalcata a Bobbio. Quando quel missionario consunto e dall’abito bianco, dall’aspetto di un druido cristiano, arrivò alle pendici dell’Appennino emiliano, dopo un viaggio iniziato con dodici compagni nell’attuale Contea di Down, nell’Irlanda del Nord, e dopo aver attraversato le lande più belle delle continente, fondando c’è chi dice oltre 100 monasteri in 20 anni, forse riconobbe più di una somiglianza con le sue montagne di Mourne. Desolate, poco più che colline, ornate solo di verde. E capì che il suo viaggio era finito.Bobbio sembra aver portato con sé qualcosa di irlandese anche nel suo destino. Il peso della sua basilica e dei resti dell’abbazia millenaria, uno dei fari della cultura e della spiritualità dell’Alto Medioevo, risultano sproporzionati rispetto a quel che è rimasto dell’abitato, che già perse il suo lustro nel Basso Medioevo e oggi conta meno di 4000 abitanti. Senza neppure una diocesi sua, oggi assorbita in quella di Piacenza. Un po’ come quelle fucine di eruditi e atleti di Dio che furono i monasteri irlandesi, divenuti spesso pietre silenti in un Paese ai margini dei grandi giochi della storia.Ma è un po’ tutto l’Appennino emiliano a essere stato segnato da questa 'marginalità'. Privo della fertilità eccezionale della 'bassa', vicinissimo eppure lontano dal traffico di vita, industria e cultura che è fluito lungo la via Emilia, tra Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Bologna. Le corrispettive valli – quella del Trebbia, del Taro, del Reno e le altre microscopiche note solo ai locali – sono rimaste fino a non molti decenni fa terre di fortilizi, di eremiti, di vita agra, di migranti stagionali, di gente che il calore emiliano lo portava chiuso in una scorza dura e ispida come le castagne. Gente per cui il benessere o lo star meglio era un miraggio visibile solo guardando in giù, a valle, da un versante o l’altro dei monti.Oggi la pietra è diventata materia pregiata. I borghi e le case di sasso rimessi a puntino non si contano, gli agriturismi sono spuntati come funghi porcini. Ma fino a 20 anni fa era segno di bon ton piccolo borghese ricoprire muri e affreschi di una manata di intonaco, come si faceva nelle case giù in pianura. Di stile 'alpino', da montagna nobile, ce n’era ben poco. Negli ultimi anni dalle parti di Montefiorino, sull’Appennino modenese, sono arrivati in cerca di rustici antichi compratori tedeschi e inglesi, dopo aver occupato Umbria e Toscana. Prima, gli unici tedeschi e inglesi di cui si conservava memoria erano quelli che avevano armeggiato intorno alla 'repubblica' partigiana narrata da Ermanno Gorrieri.Adesso al passo dell’Abetone o nei pressi di Sestola, ai piedi del Monte Cimone, il più alto dell’Appennino emiliano, si va a sciare e a far turismo serio. Per arrivare lì e altrove, come al passo del Cerreto, le gallerie e le nuove statali hanno alleviato l’ubriacatura dei tornanti. Fino a 20 anni fa, inverno o estate che fosse, per la gente della 'bassa' le montagne di casa, dove far vacanze, erano solo quelle del Trentino. Sull’autostrada tra Parma e Reggio, per ricordare al viandante che esiste un tesoro di storia e paesaggi verso le montagne, hanno inventato anche un casello, 'Terre di Canossa'. Un po’ come indicare Valtellina a un’uscita della tangenziale di Milano. Dopo aver attraversato campi di grano e capannoni, in compagnia di tir e trattori, dopo aver scavalcato Reggio Emilia e le prime colline si arriva là dove si giocò il momento più drammatico della lotta per le investiture. Del castello di Canossa, dimora della fascinosa contessa Matilde, ci sono solo i ruderi. Però basta dare un’occhiata al castello di Rossena, a fianco, sul cocuzzolo di una rupe vulcanica, o alla massiccia rocca di Carpineti, una ventina di chilometri più in su, per immaginarsi il contesto dello storico incontro tra Enrico IV e Gregorio VII. Tra vestigia romane e longobarde, feudatari asserragliati sui monti e bestiari medievali scolpiti sulle facciate delle pievi.Un’atmosfera da medioevo sacro e fantastico che si fa palpabile attorno a una delle più sorprendenti formazione geologiche non solo appenniniche: la Pietra di Bismantova. Un massiccio di calcarenite alto 300 metri, lungo circa un chilometro, che se ne sta conficcato tra Castelnovo ne’ Monti e Villa Minozzo come un gigantesco dolmen naturale, inassimilabile e tutto ciò che lo circonda. Luogo sacro ed enigmatico. Chissà se ci abitò veramente sant’Anselmo – nobile longobardo fattosi eremita a Fanano, poco distante dalla Pietra, e poi fondatore della grande abbazia di Nonantola, nella pianura modenese – come ha immaginato Giuseppe Pederiali nel suo romanzo di fantasy padana, Il tesoro del bigatto . Ma non sarebbe una sorpresa. IL BARDO FERRETTI: «L'AVE MARIA SCANDISCE I TEMPI DEI MIEI GIORNI A CERRETO ALPI»c’è oggi un bardo dell’Appennino emiliano è certamente Giovanni Lindo Ferretti, cantante e anima prima dei Cccp, poi Csi e ora dei Pgr. Bella Gente D’Appennino, uscito nel 2009 da Mondadori, è l’omaggio di Ferretti – passato dalla Berlino punk alle pianure della Mongolia – ai monti in cui è tornato a vivere, ma che non aveva mai lasciato.Cosa rappresenta per te, nel tuo andirivieni dalla tua casa di Cerreto Alpi al mondo, quell’oggetto sorprendente che è la Pietra di Bismantova?«Un cuneo di roccia conficcato sui gessi triassici. Una lezione di geologia, una dimensione magico-religiosa, una estetica arcaica e percepisco lo stupore riverente degli Avi miei per questa immane ara sacrificale, idea d’altare, protesa al Cielo. Dice il Poeta: ".... qui convien con ch’om voli;" e spazia il mio sguardo a volo radente sulle tracce dei Celti, gli Etruschi, le legioni di Roma, il peregrinare di Maria Maddalena. Limes delle guerre Goto-Bizantine, le Corti Longobarde, le Abbazie Benedettine. Le vie dei Franchi, le vite dei Santi. Cuore montano del Regno di Matilde. Veglie, doglie, famiglie, fuochi e pertinenze. Il sangue, la terra, la storia, la fede, le usanze». Nato tra i morti sui monti, vivo sui monti tra i morti. E non c’è lama che possa recidere la languida catena», canti nel tuo ultimo album. La montagna che si è spopolata ha reso più facile sentire la "voce dei morti"?«Nella montagna spopolata i funerali sono ormai l’unica socialità vitale dei borghi. La modernità vive uno spazio artificiale, determinato da necessità contingenti in cui ognuno è a sé, proteso ad un’idea di libertà che riduce la condizione umana alla dimensione di produttore/consumatore/utente. Il tempo è denaro, non c’è tempo per i morti e, proporzionalmente, si riduce quello per i non nati. Le montagne sono la materializzazione di una tensione geologica che la Creazione offre al Creatore. Un moto interiore proteso all’Altissimo. L’Appennino è una montagna a dimensione umana: abitabile e abitato da così lungo tempo da essere, il lavorio dell’uomo nei secoli, parte sostanziale del paesaggio. Tanto geografia che storia. È nella civiltà dell’abitare, nella coltura che ne ha determinato la cultura, nel racconto, in tutto ciò che colgono i sensi, che risuona la presenza di chi ci ha preceduto. Creazione e Creature trovano compimento e non ci sono morti alla fine del tempo».Qual è un tratto mariano del volto dell’Appennino, del tuo Appennino?«Il mio confine materiale tra spazio domestico e mondo esterno è una maestà di marmo: la Madonna in piedi con il Bambino in braccio che le accarezza il volto. La fecero arrivare a dorso di mulo, tra mille raccomandazioni, dalla Toscana. Per grazia ricevuta, a futura memoria. Il suono delle campane scandisce il ritmo quotidiano con l’Ave Maria: il risveglio, il pranzo, il riposo. E perché il suono fosse dolce e squillante le donne gettarono nella fusione anelli, orecchini, braccialetti d’oro. Nel mese di maggio si recita il Santo Rosario davanti le maestà che proteggono e identificano i nuclei originali del paese. L’8 settembre, festa dalla natività, la statua di Maria lascia l’altare ed esce, portata a spalla, a benedire le case, le strade, le aie e la valle. Si recita il Santo Rosario nelle veglie funebri, nelle tribolazioni, nel bisogno; a lode. È senz’altro poco e siamo pochi ma custodire e trasmettere gesti, riti, le forme quotidiane della devozione, è la fede degli umili sedimentata nei secoli. È sintomo di speranza. È affidamento amorevole, filiale, alla Misericordia divina».
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