venerdì 9 dicembre 2022
Telmo Pievani e Mauro Varotto immaginano il pianeta (e il nostro Paese) tra mille anni. Un invito all’uomo del presente a ripensare le proprie mappe
L’Europa tra mille anni immaginata da Francesco Ferrarese per “Il giro del mondo nell’Antropocene” di Telmo Pievani e Mauro Varotto

L’Europa tra mille anni immaginata da Francesco Ferrarese per “Il giro del mondo nell’Antropocene” di Telmo Pievani e Mauro Varotto - Raffaello Cortina editore

COMMENTA E CONDIVIDI

«Ecco sta per venire il giorno rovente come un forno » (Ml 3,19). «Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine» (Lc 21,9). La Parola di Dio dell’ultima domenica del tempo ordinario (XXXIII) conteneva questi due aforismi che trovo di sconcertante attualità. Il primo di essi fa riferimento al riscaldamento del globo e quindi al mutamento climatico, il secondo al fatto che, anche in tempi di guerre e rivoluzioni, non è detto che siamo alla “fine”. In entrambi i casi è possibile riprendere il senso delle due espressioni, ad esempio, mettendole a confronto con il recente volume del filosofo Telmo Pievani e del geografo Mauro Varotto, che si avvalgono delle competenze cartografiche di Francesco Ferrarese, Il giro del mondo nell’Antropocene. Una mappa dell’umanità del futuro (Raffaello Cortina, pagine 200, euro 22,00). Gli stessi autori avevano pubblicato, due anni or sono, il Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro (Aboca). Il libro dedicato al nostro Bel Paese è ambientato nel 2786, a mille anni dal viaggio di Goethe in Italia, quello che tratta del pianeta nel 2872 a mille anni dalla pubblicazione del Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Quale il pregio di queste fatiche che si situano fra il fantastico e lo scientifico? Mi sembra di poterlo rinvenire nel fatto che ci pongono di fronte alla concretezza delle immagini cartografiche, onde evitare di riflettere sull’antropocene in termini troppo teorici e astratti, come spesso accade nelle interpretazioni filosofiche, antropologiche o socioeconomiche del fenomeno e nelle terze pagine dei giornali. Nell’ultimo volume, pubblicato prima della sua dipartita da questo mondo, James Lovelock, che tutti conosciamo come l’inventore dell’ipotesi Gaia ( Novacene. L’età dell’iperintelligenza, Bollati Boringhieri), venivamo messi in guardia dal facile entusiasmo verso la considerazione dell’antropocene come nuova “epoca geologica”, preceduta da Olocene, Pliocene, Miocene... Non mancherebbero tuttavia buone ragioni per giustificare l’attenzione verso questa nuova “età del mondo”, come direbbe Schelling: si tratta del cambiamento radicale iniziato allorché gli uomini cominciarono a «trasformare l’energia solare immagazzinata in lavoro utile», il che ha comunque a che fare con la “rivoluzione industriale”, connessa con la capacità degli umani di apportare profonde, radicali e per molti devastanti modifiche all’equilibrio del pianeta. I viaggi fantageografici dei nostri autori si ritengono dotati di elevata probabilità a condizione che tutto proceda come ora, ossia non si introducano cambiamenti radicali nei modi di vita e il riscaldamento atmosferico prosegua la sua corsa, senza che si faccia nulla per fermarlo o rallentarlo. Ancora: si suppone che il nucleare non sopraggiunga a devastare in modo ancor più radicale la terra. E a tal proposito vale la pena notare con Lovelock che «scegliendo di usare l’energia nucleare in guerra abbiamo commesso un’azione profondamente crudele, senza il minimo controllo persino da parte della religione più forte e tradizionale. L’uso improprio della scienza è senza dubbio la forma di peccato più grande». E ci sarebbe ancora da chiedersi quanto inquini l’uso delle armi nei tanti conflitti presenti nel mondo? In tale prospettiva come dar torto all’architetto di Matrix reloaded che spiega a Neo l’uomo come “anomalia” in un cosmo che altrimenti sarebbe perfetto? Già nel libro dedicato all’Italia ci viene ricordato che l’antropocene non riguarda solo il mutamento climatico, ma un “groviglio” di situazioni, come l’aumento demografico, la carenza idrica, le alterazioni del suolo..., ma ognuno di tali fili di cui si compone la matassa è riconducibile all’antropocentrismo che si è andato affermando a partire dalla cultura Occidentale della modernità. Nello stesso volume la descrizione, ad esempio, di Roma e del Lazio desta sconcerto: « Le sommità dei sette colli non si distinguevano più, perché in parte sommerse dall’acqua e in parte sommerse dalle abitazioni». Altrettanto inquietante la lettura e il confronto con le cartine dell’Europa del 2872, dove Londra si sarebbe salvata diventando una metropoli stanca e accaldata in riva al mare, avendo spostato verso Oxford e Cambridge i suoi gioielli architettonici e le sedi del potere e la serie delle trasformazioni impresse a tutte le nazioni europee si conclude con la desolante constatazione: « Eravamo rimasti soli, noi Homo sedicenti sapiens, unici rappresentanti del nostro genere, loquaci e invasivi, estremamente mobili e adattabili. Avevamo già cominciato a modificare gli ecosistemi attorno a noi per renderli più consoni alle nostre esigenze. Eravamo già ingegneri di ecosistemi, plasmatori di nicchie ecologiche». E allora sorge spontanea la domanda, ispirata dall’ipotesi del novacene: potrà forse la stessa tecnica che ha prodotto la catastrofe offrire preziose opportunità di soluzione in modo da attenuarne, se non scansarne, gli esiti? E la teologia? Gli scenari descritti in questi viaggi nel futuro antropocenico, mentre offrono spunti non marginali per un’etica della responsabilità, capace di introdurre variabili non marginali o mutamenti di rotta al percorso verso il 2872, suggeriscono l’abbandono definitivo di quel principio antropico, sia pure nella versione debole, sposato da diversi colleghi, sulla scia della “svolta antropologica” del teologare nel Novecento, onde ridimensionare quelle tendenze che papa Francesco denunzia come neo-gnostiche e neo-pelagiane e al tempo stesso abitare la fragilità, di cui i poveri sono maestri. Diventa allora di cogente attualità la visione pascaliana dell’uomo nel mondo, sospeso fra l’angelo e la bestia e gettato in una esistenza nella quale “tanti reami ci ignorano” e ne hanno ben donde. Sarebbe infine decisamente irresponsabile e fuorviante ritenere che la cosa non ci riguarda perché certamente non ci saremo, in quanto il futuro comincia dall’oggi e questo perché: “non è subito la fine!”, secondo la parola evangelica.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI