martedì 31 ottobre 2023
Lo storico francese Antoine Arjakovsky: «La coscienza storica europea non ha fatto ancora i conti con gli orrori del comunismo, per questo ritornano. Per uscire dal conflitto serve buona storia»
Macerie dopo un bombardamento a Zaporizhzhia

Macerie dopo un bombardamento a Zaporizhzhia - Afp /Dimitar Dilkoff

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«La guerra in Ucraina appartiene alle guerre teologico-politiche che, come insegna la storia, sono già state le più violente mai conosciute». A sostenerlo è lo storico francese Antoine Arjakovsky, che oltralpe ha appena dato alle stampe il saggio Pour sortir de la guerre (“Per uscire dalla guerra”, Desclée de Brouwer, pagine 184, euro 16,90). Di famiglia russa, condirettore a Parigi del polo “Politica e Religioni” del Collège des Bernardins, ha fra l’altro già diretto l’Istituto di studi ecumenici dell’Università Cattolica di Leopoli, in Ucraina, dopo aver guidato il Collegio universitario francese di Mosca. Fra i suoi numerosi saggi, anche quelli sui pensatori religiosi dell’emigrazione russa. In proposito, in Italia, ha da poco curato la prefazione di I fondamenti della cultura russa, del teologo ortodosso Alexander Schmemann (1921-1983), uscito nei mesi scorsi per la casa editrice romana Lipa (pagine 296, euro 24,00).

Nel suo saggio, lei denuncia più volte l’amnesia europea a proposito del fronte orientale. Cosa intende?

«La guerra in Ucraina ha evidenziato di nuovo quest’amnesia europea. In effetti, non osiamo ancora giudicare i crimini del passato comunista, ma questa ritrosia alimenta ancor più la nostra amnesia. Un vero circolo vizioso. Finiamo, così, per incappare nei crimini del passato che ritornano. Sono personalmente colpito dal parallelismo fra l’Holodomor, l’apocalittica carestia in Ucraina del 1933-34 voluta da Stalin, e la morte da freddo, ovvero ciò che è avvenuto in questi ultimi due anni. Putin ha bombardato le installazioni elettriche ucraine per far morire di freddo un’intera nazione. Poiché abbiamo giustificato i crimini del passato, quei crimini prima o poi ritornano. È il dramma della coscienza storica europea».

Lei sostiene che manca ancora una diagnosi lucida di quanto sta accadendo…

«Fare una buona diagnosi permette di orientarsi verso un rimedio. E in proposito, come aveva intuito il filosofo Michel Foucault, le crisi che viviamo sono legate a delle malattie esistenziali o spirituali. Se le diplomazie dell’Europa occidentale non credevano a un’invasione russa dell’Ucraina, è proprio perché la diagnosi era sbagliata. Come i cinesi, i russi sono oggi disposti a perseguire fino alle estreme conseguenze una logica della forza fisica. Secondo quest’approccio, la verità e il diritto non contano più nulla, rispetto alla forza. Finora, l’errore dell’Europa occidentale è stato di piegarsi proprio a questo paradigma del più forte. Direi, del più forte almeno sulla carta. Per questo, l’Ucraina è stata a lungo trascurata. L’approccio russo, in realtà, mira a cogliere ogni minima contraddizione delle democrazie liberali per annientare tutto ciò che è annientabile, in primis l’Ucraina».

Come cominciare a correggere questa cecità?

«Aprire gli occhi significa oggi anche cogliere tutta la forza che custodisce in realtà la nazione ucraina. Una nazione che resiste pur essendo alla base venti volte meno potente militarmente. Come abbiamo sostenuto di recente in un manifesto pubblicato dal Collège des Bernardins, assieme ad altri cinque istituti di ricerca, dovremmo promuovere una diplomazia “neorealista” che non separi più gli interessi legittimi delle nazioni dai principi costituzionali delle stesse nazioni. Per difendere gli interessi, occorrerebbe prima essere fermi sui principi. È un punto capitale. Per mettere fine alla guerra, non ci si può limitare a dialogare con apparati di Stato corrotti come quelli russi».

Continuiamo a guardare l’Ucraina troppo con l’ottica russa?

«Sì. Ma da storico, vorrei ricordare che, fra il XVI e il XVIII secolo, l’Impero russo si è costituito attorno a Mosca per poi conquistare in modo coloniale l’Ucraina, sopprimendo ogni indipendenza politica e l’accesso alla lingua ucraina, così come dominando la Chiesa ortodossa locale ucraina. La Russia imperiale ha creduto d’essere l’unica erede dell’originario principato, la Rus’ di Kiev, non vedendo che l’Ucraina era altrettanto legittima nel proclamarsi come erede. Innanzitutto, perché Kiev è in Ucraina. Ma anche perché un principe di Kiev nel XIII secolo, Danilo di Galizia, si oppose ai tataro-mongoli, rifugiandosi proprio in Galizia con il sostegno del papa dell’epoca, Innocenzo IV. Spalleggiato dai polacchi, resistette all’invasore tataro, divenendo Rex Russiae. Oltre a san Alexandr Nevskij partito a Novgorod, l’eroe osannato dai russi, che patteggiò con i tatari, vi fu dunque almeno un altro erede dell’originaria Rus’ di Kiev. Ma noi, in Occidente, non conoscevamo la storiografia di Danilo di Galizia. Abbiamo fin qui recepito solo la storiografia russa, circa il legame diretto, in fondo, fra Vladimir I detto il Grande, nel X secolo, e Vladimir Putin. Questa semplificazione è una falsificazione mitologica».

In questa scia, per lei, la guerra attuale ha i caratteri delle guerre teologico-politiche…

«Sì, proprio come, in fondo, fu il caso per le due guerre mondiali vissute sul fronte franco-tedesco. La Francia e la Germania si consideravano, ciascuna, come l’unica erede di Carlo Magno. Non dimentichiamo che, a fine Ottocento, i francesi edificarono una statua di Carlo Magno a Parigi davanti alla Cattedrale di Notre-Dame. Eppure, Carlo Magno non venne mai a Parigi. Dal canto loro, i tedeschi ricordavano che la capitale imperiale carolingia fu Aquisgrana, oggi nel distretto di Colonia. Da qui, la legittimazione del mito nazista del Terzo Reich».

Si possono prevenire simili spirali?

«Per prevenire e scardinare queste spirali mortifere, l’Europa deve imparare oggi a fare una buona storia. Una storia degli sguardi europei incrociati, come proponeva anche il filosofo Paul Ricœur. Una storia che sfugga alle tentazioni imperiali, proprio per non ricadere nelle mitologie imperialiste. Per fortuna, non mancano gli storici che lavorano in questa direzione, anche in Italia e Francia. I russi e gli ucraini debbono fare pure questo lavoro. Accettare che hanno una storia che è al contempo comune e diversa. Simbolicamente, pubblicare un manuale storico russo-ucraino in questo senso sarebbe un passo fondamentale».

Anche senza volerlo, l’Europa occidentale resta soggiogata dall’aura culturale russa?

«La mia stessa famiglia fa parte dell’emigrazione russa. Sono stato naturalmente segnato da grandi figure come ad esempio Alexandr Solzenicyn, o Alexander Schmemann, che è stato uno dei teologi ortodossi più creativi del Novecento. Entrambi erano anticomunisti e intendevano ritrovare le radici spirituali della civiltà europea. Benissimo. Ma come altri grandi russi, non sono riusciti a vincere la nostalgia dell’impero. La stessa che, in modo terribile, nutre una cultura del risentimento. Ecco allora, in fondo, l’origine delle foto divenute celebri di Putin assieme a Solzenicyn. Putin ha trasformato in un vero cantiere questo risentimento dei russi per aver perduto la grandeur dell’epoca di Alessandro II, Alessandro III, Nicola II. Per questo, non dobbiamo privarci di criticare persino Solzenicyn, come altre figure, per questa nostalgia all’origine di tante mostruosità».

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