mercoledì 14 aprile 2010
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«Tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». Questo è stato Mark Twain per un altro gigante della letteratura americana come Ernest Hemingway. E quale migliore presentazione per commemorare i cento anni dalla morte di Twain, avvenuta il 21 aprile 1910. Una, nessuna, centomila vite, quelle del narratore-reporter avventuriero, dallo sguardo rapace, sempre pronto a cogliere e a rimettere in pagina ogni dettaglio per un racconto, ogni volto per una biografia, ogni fatto degno di un articolo o una semplice breve, della società del suo tempo. Un continuo rimescolamento della personalità, complessa, votato a diventare il personaggio più famoso dell’America in cui visse e in cui fece sentire forte le sue idee che andavano in direzione ostinata e contraria. Un abisso di interessi e conoscenze che si rintracciano già nel suo pseudonimo "mark twain" (il suo vero nome era Samuel Langhorne Clemens), unità di misura della profondità di sicurezza delle «due tese» (3,7 metri), ben nota ai navigatori dei battelli che solcano il fiume Mississippi. Una delle tante esperienze di gioventù riposte nella valigia dello scrittore e rintracciabile nello splendido racconto Vita sul Mississippi. Ma prima era stato cercatore d’oro e minatore. E poi ancora giornalista e padre putativo della nobile famiglia degli inviati di razza. Un viaggiatore instancabile che passando dall’Africa alla Francia sbarcò anche in Italia, come narra nel suo libro Gli innocenti all’estero. All’apice del successo giornalistico e letterario – alcuni dei suoi libri sfiorarono anche il mezzo milione di copie vendute – , arrivarono anche i lauti guadagni. Poi il lento affondare nel dolore dei lutti famigliari (la morte della moglie Olivia e delle figlie Susan e Jane) fino alla dissipazione totale che gli fece rasentare la miseria, dalla quale si salvò con l’appoggio di alcuni amici filantropi e il mestierato dell’abile conferenziere. Colpa di imprese editoriali sbagliate, come la biografia invenduta su Leone XIII, ma anche, con l’andare del tempo, per la perdita della vena morbida della sua narrativa che si faceva ancora leggere e ammirare in Tom Sawyer, altro caposaldo dell’educazione letteraria dei giovani americani di fine ’800. Di fondo, c’è da fare i conti con la realtà dell’onesto intellettuale, quindi molto scomodo in quell’America rampante e dalle tante libertà e nessuna davvero coltivata, dell’inizio del secolo scorso. Una nazione già devota alla mistificazione della verità che invece è stato il simulacro al quale Twain ha sacrificato tutta la sua esistenza. La testimonianza più forte si ritrova in quel piccolo scrigno saggistico che è Libertà di stampa, sottotitolo: «I giornalisti onesti ci sono. Soltanto costano di più» (Piano B Edizioni). Un pamphlet di un’attualità sconvolgente, come gran parte degli scritti di Twain. Affondi politici irriverenti, a cominciare dal capitolo The war prayer, «Pregare in tempi di guerra», in cui nel 1905 Twain fa il quadro crudo del conflitto filippino-americano. Un testo rimasto inedito fino al 1923 e scampato al rogo insieme ad altri testi di ordine politico e religioso, compiuto per mano dei familiari dello scrittore che li consideravano lesivi. La sua pietistica assoluzione al gesto del parentato del resto l’aveva già messa in calce: «Un uomo non è indipendente, e non può permettersi di avere delle idee che potrebbero compromettere il modo in cui si guadagna il pane. Se vuole prosperare deve seguire la maggioranza… Altrimenti subirà danni alla sua posizione sociale e ai guadagni negli affari». Pur avendo avuto tutto, grazie al mestiere di scrivere, ha sempre messo in guardia il suo lettore dalla stampa: «È ormai diventato un proverbio sarcastico sostenere che una cosa deve essere vera se la si è letta sul giornale. Questa è la sintesi dell’opinione che hanno le persone intelligenti a proposito di questo mezzo bugiardo. Ma il guaio è che gli stupidi che costituiscono la stragrande maggioranza di questa e di tutte le altre nazioni, ci credono davvero e sono formati e convinti da ciò che leggono sul giornale, ed è li che sta il danno». L’eroe della carta stampata, ormai anziano e in preda agli stenti, si ritrovò incartato dal "mostro" che aveva sempre combattuto: la mediocrità che indottrinava il popolo con la falsa informazione. «Una bugia detta bene è immortale», ammoniva, ed è quella che spesso partorisce il conformismo. «Conformarci è nella nostra natura. È una forza alla quale pochi riescono a resistere», scrive Twain. La vera resistenza per lui era dunque sfuggire al conformismo, ma la maggior parte del popolo è da sempre vittima dell’opinione pubblica. «Non facciamo altro che sentire, e l’abbiamo confuso col pensare. E da tutto ciò non si ottiene che un aggregato che consideriamo una benedizione. Il suo nome è Opinione Pubblica. Risolve tutto. Alcuni credono che sia la voce di Dio». E invece nell’America di Twain, non era alto che il prodotto degradato di «un’orda di sempliciotti ignoranti e compiaciuti che hanno fallito come sterratori e calzolai, e che hanno intrapreso il giornalismo lungo il loro cammino verso l’ospizio per poveri». Il potere dei governanti ammaestra dunque il giornalismo e a sua volta chi informa può facilmente ammaestrare il popolo con messaggi preselezionati e deprivati della verità: «L’ammaestramento fa cose meravigliose… Può trasformare i cattivi principi in buoni e i buoni in cattivi; può annientare ogni principio e ricrearlo». Da giornalista e direttore dei quotidiani più strampalati del suo tempo, Twain stilava la sua temeraria accusa alla "casta": «Esistono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma nessuna che faccia qualcosa per proteggere le persone della stampa». Rileggendolo, viene da chiedersi con preoccupazione: quanto è cambiato lo scenario in questi cento anni prima del suo addio? «Sono arrivato con la cometa di Halley nel 1835. Torna l’anno prossimo e penso di andarmene con lei», fu la sua ultima profezia. E nella dimensione in cui si trova adesso, Twain non ci ha ancora inviato la smentita alla sua tesi finale sulla libertà di stampa: «Solo ai morti è permesso di dire la verità».
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