sabato 26 agosto 2017
Alla soglia dei 90 anni lo storico divulgatore scientifico racconta il suo lungo viaggio esistenziale e televisivo
Piero (a sinistra) e Alberto Angela in una puntata di "Superquark" (Rai)

Piero (a sinistra) e Alberto Angela in una puntata di "Superquark" (Rai)

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«In fondo, a tanti anni di distanza, mi sembra di rivedere la mia vita un po’ come una piccola giostra che mi regalarono da bambino, un piccolo carosello con i cavalli e i cavalieri...». Memorie di Piero Angela. In un tempo, quello liquidissimo in cui siamo tutti immersi, che ha barattato la superficialità per ogni forma di approfondimento, un’ora di conversazione con il massimo divulgatore culturale di mamma Rai ci riporta vitalisticamente a galla. Il tono è sempre quello elegante e pacato di chi per primo ha lanciato nell’orbita del piccolo schermo il genere “divulgazione scientifica” («nel 1968, Il futuro nello spazio fu il mio primo programma Rai»). In epoca pre-virtuale ha ammaliato intere generazioni con il gulliveriano Viaggio nel corpo umano e il sempiterno Super Quark continua a tenere incollati al video tre milioni di telespettatori incantati dalla Brescia romana (Brixia) spiegata al popolo delle notti d’estate dal degnissimo erede Alberto Angela. Un successo infinito, quanto annunciato. «Alla prima puntata di Quark (1981) andavamo in onda in seconda serata e facemmo subito 9 milioni di telespettatori», dice Angela senior che da mezzo secolo difende uno stile che è lontano anni luce da quello sensanzionalistico e gridato delle arene televisive. In Rai (prima alla radio) dagli inizi degli anni dal ’50. Tanta gavetta e poi prima della lunga stagione di Quark e i suoi fratelli, tredici anni di «esilio professionale come inviato del telegiornale, a Bruxelles e a Parigi». Al seguito Margherita, ex ballerina della Scala, l’amore di una vita, la mamma di Alberto e Christine. Alla soglia dei novant’anni («li compio a dicembre 2018», precisa), i ricordi di una vita li ha appena consegnati alle pagine dell’intenso e autobiografico Il mio lungo viaggio (Mondadori. Pagine 224. Euro 19,00)

Il sottotitolo recita “90 anni di storie vissute”. Vogliamo cominciare dalle storie della Torino degli anni ’30?
«Vuol dire di quando ancora era un piacere anche stare da soli senza annoiarsi? Ebbene, se ripenso alla mia infanzia rivedo pomeriggi pieni di silenzio in cui c’era ancora il tempo per fermarsi a pensare e immaginare il futuro. Un tempo scandito da telefonate brevi, dopo tre minuti la tariffa raddoppiava – sorride –. C’era un pensiero più articolato, si stava attenti nel non cadere nell’approssimazione, a non sprofondare nel ridicolo».

Ci sta dicendo che l’attuale era dei “nativi digitali” è un universo tutto in superficie?
«Dico che la tecnologia è stata fondamentale per migliorare le nostre vite ma nell’abuso che se ne fa ha generato solitudine e talora squallore. I social modaioli creano cortili di banalità alla “così fan tutti”. Io lo vedo con i miei nipoti, pur se abbastanza immuni dalla deriva social, devono difendersi nell’arco delle 24 ore mutilate e scandite da tanti tempi morti che vanno pur riempiti in qualche maniera».

Insomma, siamo tornati al classico refrain: si stava meglio quando si stava peggio?
«C’erano più limitazioni e noi ventenni di allora eravamo molto più ingenui e fanciulleschi rispetto a quelli di adesso. Vivevamo in una galassia informativa scarna, ridotta a quattro fogli di giornale. Ma adesso si vive sotto costante bombardamento mediatico. Ognuno si sente portatore sano di verità da rendere pubbliche e pare che vinca chi è più visibile e sa esprimersi con maggiore vis polemica. Comunque mai stato un nostalgico e non rimpiango il passato, semmai rimpiango i valori di ieri. L’amicizia sincera, il senso della famiglia, un certo pudore e la capacità di vergognarsi mi pare che siano sentimenti in via d’estinzione».

Chi sono stati i suoi maestri?
«Don Carlo Ughetti è l’unico insegnate che ricordo con piacere. Era un salesiano dagli occhi grigi che fulminavano da dietro degli occhialini alla Cavour. Don Ughetti era un uomo serio, autorevole, tutti i giorni ci faceva sfogare i bollori con la ginnastica, poi ci assegnava un tema in classe. Curava la nostra scrittura e ci coinvolgeva negli esperimenti di fisica portandosi gli apparecchi da casa... In un certo senso – sorride – è stato un precursore di Quark».

Quanto hanno contato gli insegnamenti di suo padre, il professor Carlo Angela, “Giusto tra le nazioni” per aver salvato ebrei e antifascisti nella clinica psichiatrica di Ville Turine, a San Maurizio Canavese?
«Mio padre è stato sicuramente il tramite delle mie curiosità scientifiche. Si era specializzato a Parigi frequentando i corsi di un luminare della neurologia come Babinski, compagno di studi di Freud. Poi aveva studiato anche a Londra e parlava bene l’inglese. Di quel “salvataggio” di vite umane non si vantò mai, ad alcune famiglie di ebrei rivelò i rischi che aveva corso per aiutarli solo dopo il ’45. Era convinto che fosse suo dovere agire così. Ma ricordo ancora il suo volto quel 25 aprile... Era il ritratto della felicità».

Lo “stile Angela” narrativo, anche in tv, tende sempre a variazioni sul tema: verrebbe da dire che anche nei suoi programmi si avverte la sua anima jazz
«Penso di potermi considerare un jazzista televisivo – sorride divertito –. In fondo l’obiettivo del musicista di jazz è la libertà di invenzione, la capacità di trovare strumentisti che si accordino al meglio fra di loro. In tv le note giuste le ho trovate nella scienza che muove verso la ricerca e la scoperta. La stagione del jazz è stata quella anche del profondo legame con il pianista Chico Lessona, il mio amico del cuore, e idealmente si chiuse quando seppi della sciagura aerea in Bulgaria in cui era morto (nel 1978). Una cosa straziante».

Nel suo libro fa i conti con il suo ateismo citando la storia dell’amico missionario, Lio
«Ho sempre provato grande rispetto per le persone che hanno trovato una fede e nutro altrettanta ammirazione per uomini come Lio che hanno messo la loro esistenza al servizio degli altri, dei più bisognosi. Ho conosciuto anche molti scienziati credenti in grado di viaggiare su due binari paralleli, capaci di distinguere le traversine scientifiche da quelle del credo religioso».

È consapevole del grande merito che ha avuto la sua “funzione scientifica” in televisione?
«Sono consapevole che la scienza prima dei miei programmi era vista in modo professorale, passava soltanto quello che si studiava a scuola. Quando abbiamo cominciato, per testare Quark ci rivolgemmo a una società di valutazioni che sottopose a gruppi di ascolto di otto persone – di vario genere – una puntata zero. Il risultato fu che il 20% del campione dei telespettatori riteneva che il nostro programma non parlasse di “vera scienza”. Per noi quel 20% era tanto, così in tutti questi anni abbiamo lavorato per azzerare anche quel dato».

Un lavoro che con l’ingresso di suo figlio Alberto è diventato a conduzione familiare
«Sono stato assunto in Rai nel ’60 e dopo ventitré ne sono uscito producendo in autonomia, fino a oggi, i nostri programmi. Il successo di Alberto è il frutto della sua grande preparazione. Ha avuto solo la fortuna di trovare un padre che è contrario a ogni forma di raccomandazione. Il mio telefono ha squillato spesso ma ha smesso anche presto perché la politica sapeva della mia totale indipendenza e del mio principio cardine: la meritocrazia».

Lei parla delle università americane come di un modello meritocratico assoluto
«Al Caltech (California Institute of Technology) di Pasadena, fucina di premi Nobel, scoprii con grande sorpresa che erano gli studenti stessi a darsi i voti dopo aver sostenuto l’esame. “È una forma di autoresponsabilità” mi spiegò il professor Arthur Kornberg – geniale modificatore di una sequenza di Dna – il quale quando gli chiesi un’intervista mi rispose: “Gliela concedo, ma lei mi spieghi come mai questi bravissimi biologi che lavorano qui non riescono a tornare in Italia?”. La risposta si trova in due libri dell’Associazione dottorati e dottorandi: Cervelli in fuga e Cervelli in gabbia di cui vado fiero di aver scritto la prefazione».

Grazie ai suoi programmi ha esplorato un intero universo e conosciuto centinaia di personaggi, ma c’è un incontro che le è sfuggito?
«Molti, ma uno che mi sarebbe piaciuto incontrare, anche per ringraziarlo di persona, è il regista Stanley Kubrick. Quando iniziò l’avventura di Quark trovata la sigla, l’Aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach (nell’interpretazione del gruppo vocale dei Swingle Singers) chiesi se potevo utilizzare qualche sequenza del suo film 2001 Odissea nello spazio. La produzione non mi considerò neppure, allora scrissi direttamente a Kubrick che mi sorprese rispondendomi con una lettera gentilissima in cui mi autorizzava a prendere tranquillamente delle sequenze del film. È stato un genio del cinema, uno dei pochi capaci di cambiare continuamente registro».

Ora parla da uomo di cinema, ha fatto anche lo sceneggiatore di Un giorno prima, film diretto da Giuliano Montaldo
«Una storia di volontari che accettano di farsi rinchiudere per venti giorni in un rifugio antiatomico per testare gli effetti del comportamento umano. Montaldo mi ripete ancora: “Piero, con quel soggetto hai inventato il reality del “Grande fratello”».

Il grande fardello dell’umanità, scriveva già con Lorenzo Pinna in Perché dobbiamo fare più figli, è il grave “squilibrio demografico” che vive il nostro Paese
«Se ne parla ancora troppo poco. Ma mentre nel 2050 l’Africa esploderà passando a oltre 2 miliardi di abitanti e l’Asia toccherà quota 5 miliardi di persone, il nostro sarà un Paese sempre più popolato da anziani. Dovranno tenere conto del mutamento nei segmenti scuola-lavoro-pensione, sarà un’Italia parallela abitata dai 9-12 milioni di immigrati».

Ci lasciamo così, davanti a uno scenario preoccupante, incerto e una discreta dose di amarezza
«Io convivo da sempre con l’ottimismo della volontà e il pessimismo dei numeri. Ma credo nell’uomo, nella sua capacità di adattamento e di risoluzione dei problemi. Personalmente sono felice di aver vissuto in questo tempo e conservo ancora sprazzi di fanciullezza... Poche sere fa a Gaeta, dopo la presentazione del mio libro, mi sono commosso: una signora in coda per la firma copie si è presentata con un pacco dono e mi dice: “Questo è per lei, l’ho fatto arrivare dalla Germania”. Era la copia identica del carosello che mi regalarono da bambino».

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