lunedì 27 agosto 2012
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Faccio fatica a pensare che Antonella Anedda, la paziente tessitrice di articolate e ben levigate raccolte in versi, non conosca il respiro alla base del gesto poetico, ma intenda la creazione letteraria in termini esclusivamente architettonici. «Le parole come mattoni, ciottoli, pietre e poi la costruzione di qualcosa che alla fine, quando mi sembra che regga, chiamo poesia», intona senza fretta, con innata gentilezza. Faccio fatica a credere, anche, che nel suo immaginario il dolore non abbia un colore. O che le parole, magari, siano prive della propria ombra. E che questa, infine, non lasci trapelare suono alcuno. Faccio fatica. Eppure, come lei sorridendo assicura, «sono moltissimi i modi per essere poeti, perché sono moltissimi i nostri gesti. Si può fare poesia anche preparando una ciotola, come nel film Morte di un maestro del tè». Stupendo, lo ammetto. Ma oggi, domando, chi sostiene i poeti? E il pubblico, in generale, li ama ancora?«Secondo me sì, si ripete il luogo comune: i poeti si leggono solo tra loro, invece esiste un pubblico anche disinteressato di lettori che faticosamente trovano i difficilissimi libri da trovare di poesia».La scrittura in prosa è da sempre abituata a gettare ponti tra chi scrive e chi legge. Molto di più, comunque, rispetto alla parola poetica. Nei suoi componimenti, lei però le adotta con efficacia entrambe. Questa scelta è stata dettata, oltre che da ragioni di stile, dalla volontà di accorciare le distanze tra pubblico e poeta?«No, nasce da un’esigenza pittorica: a volte i versi si raggrumano sulla pagina, nell’economia del testo, so che in quel punto la cosa che chiamo poesia ha bisogno di un addensamento, a volte invece il verso deve obbedire a una discesa. Un dripping, come in Pollock».Chi, tra gli autori da lei amati, e quali, tra le poesie che non dimenticherà, hanno saputo mettere meglio in luce la sua natura creativa?«Più che mettere in luce l’hanno messa in ombra, nel senso che quando ho letto i classici e a tredici anni ho ascoltato alla radio poeti come Block, Mandel’štam e poi Achmatova e Cvetaeva, ho capito che prima di dire "io scrivo" avrei dovuto lavorare moltissimo. Dai tredici anni ho cominciato la mia attività di raccoglitrice: scrivevo su un quaderno i versi, o le frasi dai testi che mi colpivano. Continuo ancora, ma sono molto disordinata, scrivo da entrambi i lati e attacco immagini ritagliate dai giornali. E anche i poeti non hanno né spazio né tempo, vanno da Archiloco a Basho, da Cavalcanti a Elizabeth Bishop, solo per dire alcuni nomi».Da quali presenze, reali o immaginarie, è abitato il suo pensieroso, sorvegliatissimo mondo poetico?«Da molte cose concrete come i piatti, i lenzuoli, le finestre, i castagni, il granito, l’acqua dolce e salata, la sabbia, la polvere, gli insetti che potrei guardare per ore e dal ricordo delle persone vive e morte». Quando scrive, cosa chiede di solito all’immaginazione?«Non chiedo nulla, aspetto. Quando scrivo l’immaginazione fa il suo buon lavoro, da un’immagine ne scattano altre. Collages di pensieri e immagini. Il difficile è trovare la scatola che le contenga, la misura che trasformi tutto questo in un’opera».Seguendo «le mappe dentro alle parole» è arrivata a scoprire qualche luogo dell’esperienza che altrimenti avrebbe cercato inutilmente? Quanto tempo ha impiegato per trovare quello delle sue origini?«Non so se seguendo "le mappe dentro alle parole" sono arrivata da qualche parte, forse sto ancora girando. Amo le mappe, ma le decifro a fatica, devo mettermi gli occhiali, seguirle con il dito. Il verso che lei cita è in una poesia intitolata Spazio dell’invecchiare, inclusa in Salva con nome (Mondadori, 2012) Volevo riflettere su come da un certo momento in poi ciò che davamo per scontato non lo è più: "Senti come guadagni la via del corridoio. / Non è scontato il passo col respiro. / Conta i mattoni pensando ai ciottoli di fiume / all’acqua che ti fasciava il piede / ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare / le mappe dentro alle parole." Comunque sono sempre stata lentissima, da bambina mi chiamavano Lumaca, scopro tutto a tentoni, tastando il terreno, inciampando molte volte. Ma ora che le rispondo mi chiedo se ho mai scoperto davvero qualcosa, a parte l’amore per mia figlia, che non davo affatto per scontato...». Il dialetto, in questa ricerca, le è stato di particolare aiuto?«Sì, è stata una scoperta. Ho ascoltato la lingua sarda sempre durante l’infanzia, ma appunto solo ascoltato, di passaggio. Più tardi, in un momento doloroso quando le parole italiane letteralmente mi mancavano, mi sono resa conto che conoscevo anche un’altra lingua "non bassa, ma profonda", come scrive Meneghello, il quale mi ha poi chiarito qualcosa sull’uso dell’italiano: la predilezione per i verbi, la sobrietà nell’uso degli aggettivi, la scelta di suoni più aspri che dolci, una certa inclinazione verso le consonanti. Non solo. A volte per capire quanto c’è di superfluo provo a tradurre ciò che ho scritto dall’italiano in sardo, ultimamente provo a tradurlo anche in inglese. È utilissimo perché si capisce cosa si può perdere e cosa si può illuminare».Nella sua già cospicua produzione poetica, lei adotta tecniche piuttosto diverse fra loro. Inoltre, i vari spicchi di testo si caratterizzano per un’estrema cura dell’impianto generale, che di volta in volta viene reinventato, o meglio, addirittura ri-creato a secondo delle situazioni e delle differenti esigenze concettuali. Quanta cura dedica alla definizione formale di ogni singola poesia?«Credo di non lasciare in pace quello che ho scritto finché quello che ho scritto non lascia in pace me, finché non mi scaccia. Sì, l’impianto generale per me è importantissimo. Penso che un libro di poesia non debba essere una raccolta di testi ma una costruzione attraverso i testi». La conoscenza, per motivi di studio, di tecniche e modalità espressive in uso nell’arte moderna e contemporanea, l’ha in un certo senso facilitata nella ricerca di nuove soluzioni formali?«Sicuramente sì, il fatto di amare l’arte e in particolare l’arte contemporanea, di seguire la fotografia, mi ha, credo, affilato lo sguardo, ha sviluppato la mia attenzione ai dettagli, la passione delle immagini – come diceva Baudelaire. Le idee degli artisti, sono sempre state per me una fonte di ispirazione». Sporgendosi dal balcone del corpo in quali paesaggi si è imbattuta? Tra questi, ce n’è stato qualcuno che l’ha messa a disagio o che magari avrebbe fatto a meno di contemplare?«Ci imbattiamo continuamente in immagini che ci mettono a disagio: povertà, sfruttamento, violenza sulle persone, sul paesaggio, sono sempre davanti ai nostri occhi. Ci sono stati e ci sono "paesaggi umani" che non avrei voluto contemplare ma dai quali mi sembra giusto non distogliere lo sguardo. Forse scrivere è questo, non distogliere lo sguardo e parlare anche se da quel "balcone" limitato, sbrecciato, del nostro corpo, questa parola è così fraintesa».Come si osserva una poesia? Quali sono le caratteristiche che colpiscono di più l’occhio allenato del poeta?«Non so se si possa parlare di allenamento, forse non si è mai allenati, ma se un testo mi colpisce lo leggo e rileggo, ne osservo i dettagli, mi incanto per le soluzioni scelte. A volte provo a smontare la poesia delicatamente anche se so che quello scatto interno, quel clic che la rende perfetta è indecifrabile. Mentalmente mi complimento con quell’assente che mi provoca tanta gratitudine». Quanto è importante in un componimento poetico il punto di vista? Lo è meno, ad esempio, che per un romanzo, un racconto o un dipinto?«Spesso, spessissimo io assumo il punto di vista di altri, ma le poesie vengono sempre lette in chiave autobiografica. Spesso racconto schegge di vite altrui, a volte tesso un dialogo a distanza. Più che la prospettiva classica, rinascimentale mi interessa la moltiplicazione dei punti di vista del cubismo».Molto forte, nel «corpus» complessivo dei suoi versi, è il senso della perdita: di cose, luoghi, affetti, persone. Eppure, proprio a causa del severo sforzo di solitudine che gli è necessario, non l’ha sfiorata talvolta l’idea che l’atto stesso di scrivere sia già il reiterato congedo da qualcuno o da qualcosa?«Sì, ha ragione, l’atto di scrivere è anche un reiterato congedo, l’abbandono di qualcosa al mondo».L'INEDITO

 

 

Non voglio il buio per dormire
un blu dove non puoi trovarmiche mi coli sul dorso come piombo.
Chiudi gli occhi hai detto morendoma io non ho ubbidito cercavoun guado nella camera ardente.
No kerzo s’iscuriu po drommiriUnu biaittu ue tu non me podes buscareIte m’iscoli in sa pala che unu prumbu.

 

Serra sos ojos, has nau morendiMa deu, disubbidiente, linnavounu badu in sa camera ardente.
Antonella Anedda
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