mercoledì 22 febbraio 2023
Parla il figlio dell’ex bomber morto nel 2020 per il Morbo del pallone: «Facciamo chiarezza su questa anomalia». E il mistero delle morti bianche galleggia tra Como e Lecco
Gianluca e Pietro Anastasi (1948-2020)

Gianluca e Pietro Anastasi (1948-2020)

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Gianluca è allo stadio, a vedere la partitella d’allenamento di suo figlio, Luca, il nipote di Pietro, la terza generazione degli Anastasi. «Io ho giocato fino agli allievi del Verbano, poi ho detto basta, tanto in famiglia ne bastava uno di campione, mio padre» dice il figlio maggiore di Pietruzzu (l’altro, il minore Silvano vive e lavora negli Stati Uniti). Pietro Anastasi, catanese, classe 1948, cresciuto alla Massiminiana, il club etneo del vulcanico presidente Angelo Massimino, futuro padre patron del Catania che quando mister Mimì Mazzetti gli disse «Presidente manca la malgama» lui rispose d’istinto “allora che aspettiamo? Compriamolo sto Malgama!». Una risata per sdrammatizzare, perché la fine di Pietro Anastasi è stata tragica. La morte del bomber con la valigia, il talento puro salito dalla Sicilia fino a Varese, dove esplose per poi approdare alla Juventus (una leggenda del calcio azzurro, campione d’Europa nel ’68 con tanto di gol rifilato alla Jugoslavia nella finale-ripetuta e vinta 2-0 all’Olimpico di Roma), rientra di diritto tra le oltre 350 “morti misteriose” del calcio. Per di più la sua fine va annoverata tra i 34 casi calciatori morti di Sla o “Morbo del pallone” come lo abbiamo definito da tempo. Ma quando emerse la notizia della malattia di Anastasi non si parlò di Sla, bensì di un cancro al polmone. Ora a distanza di tre anni dalla fine del campione, volato via nel gennaio del 2020, suo figlio Gianluca per la prima volta parla di quella misteriosa malattia che ne ha causato la morte.
Quando e come è entrata la Sla in casa Anastasi?
Dopo dei controlli di routine, papà aveva male a una gamba. Un giorno ha cominciato a inciampare e mia madre si accorse che teneva sempre il collo storto: «Pietro raddrizzati, perché stai così?» gli ripeteva. Papà non se ne accorgeva neppure. Così siamo andati a Torino allo studio del prof. Adriano Chiò, un luminare della Sla, come ci avevano detto, il quale ci informò che stava curando altri calciatori, meno famosi di Anastasi, ma comunque gente che aveva dei trascorsi a livello dilettantistico. Il referto medico di Chiò fu una sentenza impietosa. Con nostra madre Anna, io e mio fratello pensammo di non rivelarlo a nessuno, tanto meno a papà.
Un silenzio motivato da cosa?
Molto semplice, papà era emotivamente molto fragile. Dai controlli emerse anche quel cancro al polmone e se fosse stato solo quello si poteva ancora sperare. Andavo a trovarlo e condividevo con lui quella speranza, mentre tenevo per me il segreto della Sla. Piangevo di nascosto ogni volta che lo salutavo e me ne tornavo a casa mia, perché sapevo che contro quel morbo non c’era nessuna speranza di guarigione…
Ma suo padre non immaginava nulla?
Aveva qualche sospetto, poi quando negli ultimi due mesi di vita ha avuto la certezza che si trattava della Sla si è lasciato andare. Ha smesso di lottare, ha chiesto di non essere più assistito. Con la morte nel cuore siamo andati al comune di Varese, dove risiediamo, per confermare la sua volontà espressa in tempi non sospetti: la rinuncia all’accanimento terapeutico. Una scelta dolorosissima, perché Pietro Anastasi amava profondamente la vita. Era un credente e praticante che alla domenica non mancava di andare alla Santa Messa, fino a che ha potuto.
I malati di Sla in genere lottano stoicamente fino alla fine, come conferma anche la vicenda di Stefano Borgonovo.
Ma fu proprio l’annuncio della malattia da parte di Borgonovo a fargli fare quella scelta: «Se un domani dovessi ammalarmi di Sla non voglio curarmi più», aveva detto a nostra madre. Vedere quelle immagini di Stefano alla tv lo avevano scioccato e anche molto impaurito, perché era consapevole che Borgonovo non fosse il solo calciatore malato e che poi sarebbe morto di Sla. E il numero preoccupante di casi nel calcio lo impressionava.
Quella paura è tornata prepotentemente dopo le recenti morti di campioni, due cinquantenni, Sinisa Mihajlovic (leucemia) e Gianluca Vialli (cancro al pancreas). Molti ex calciatori temono di ammalarsi per i farmaci presi in carriera. Pietro Anastasi aveva confessato queste stesse ansie?
A noi aveva raccontato di aver preso farmaci per guarire da infortuni: antinfiammatori, sicuramente aveva preso il Micoren anche lui. Per quanto concerne la Sla si era fatto l’idea che potesse dipendere dai traumi, «chissà - diceva –, magari dipende dai troppi colpi di testa». Pur non essendo altissimo con i colpi di testa se la cavava, diversi gol li aveva fatti con l’inzuccata a “volo d’angelo”… Negli anni in cui giocava lui poi i palloni erano dieci volte più pesanti rispetto a quelli di oggi. Io e la mia famiglia sinceramente dopo la sua morte le abbiamo pensate tutte...
L’ultima ricerca del dottor Vanacore e il dottor Stipa sul fronte Sla e calcio parla di fattore ambientale, delle “acque grezze” con cui si irrigano i campi di gioco. Sotto la loro lente soprattutto quelli di club lacustri, Como e Lecco in primis.
Papà è stato lanciato dal Varese e qui vicino c’è il lago, così come sorge sul lago Lugano che è stata l’ultima tappa della sua carriera. Non so… L’unica certezza che abbiamo è che veder morire un famigliare di Sla è devastante... L’unica consolazione per lui è stato essere circondato fino all’ultimo dall’affetto della sua famiglia. Gli amici? Il suo amico storico era Mauro Bellugi, morto anche lui, povero (nel 2021), dopo che gli avevano amputato entrambe le gambe. Ma aveva amici in tutte le squadre ma gli ex Juventus, Causio, Bettega, Gentile li ringrazio ancora per l’affetto che hanno dimostrato nei confronti di mio padre e per tutti noi.
Alle altre famiglie e ai figli di calciatori morti di Sla che cosa si sente di dire?
Che sarebbe utile fare chiarezza sulle possibili relazioni tra la malattia e l’attività calcistica svolta, quindi testimoniare è quanto mai utile specie in questo momento storico. Poi dobbiamo aiutare la ricerca per porre fine a queste agonie e affinché trovi la soluzione per debellare la Sla.



IL MISTERO DELLE "MORTI BIANCHE" TRA COMO E LECCO

Nei giorni scorsi Avvenire ha intervistato il dottor Giuseppe Stipa (Ospedale Santa Maria di Terni) e il dottor Nicola Vanacore (ISS. Istituto Superiore Sanità di Roma), due dei massimi esperti della misteriosa galassia calcio e Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), i quali con i colleghi Antonio Ancidoni e Guido Bellomo, medici ricercatori dell’ISS, hanno pubblicato un interessante studio sugli “Annals of Neurosciences” dal titolo: Acque non trattate e Sla: un’ipotesi unificatrice per gli agenti ambientali coinvolti nella Sla. Sul fronte Sla e calcio, il filo conduttore, secondo la loro ipotesi scientifica, potrebbe annidarsi nell’ «acqua grezza» per l’irrigazione dei campi di gioco. E in quello studio hanno ipotizzato un collegamento tra i diversi cluster di Sla conosciuti a livello internazionale, «includendo, per la prima volta, anche quello dei calciatori», informano Stipa e Vanacore. Quel cluster, fa riferimento anche alla ricerca del “Mario Negri” pubblicata nel 2019 in cui vennero riscontrati 34 casi di morti di Sla nel calcio, di cui 6, ancora più misteriosamente, riguardano calciatori del Como: Celestino Meroni (fratello della Farfalla granata Gigi), Maurizo Gabbana, Albano Canazza, Adriano Lombardi, Piergiorgio Corno e Stefano Borgonovo. Prima di Borgonovo, il testimonial principe della lotta alla Sla nel calcio era stato Adriano Lombardi (morto nel 2007). Con Borgonovo, Lombardi aveva giocato assieme la stagione lariana 1981-’82, quella dell’addio al calcio di Adriano il “rosso” e il debutto assai promettente in Serie A (contro l’Ascoli) del bomber 17enne che da lì, dal Lago, sarebbe arrivato a spiccare il volo fino al Milan stellare degli anni ’90, vestendo anche la maglia della Nazionale. Ma mentre Borgonovo non ha mai puntato il dito contro il calcio, Lombardi aveva dei dubbi sulla sua malattia che confessò a sua moglie. «Adriano. sapendo dei tanti casi di malati e di morti di Sla, venne colto dal sospetto che il calcio potesse entrarci... Non tutti hanno avuto la possibilità di giocare come mio marito in Serie A e quando non si ha il grande nome si finisce per essere dimenticati», disse alla sua morte la vedova di Lombardi. Chi non ha giocato mai tra i professionisti è Massimo Pomi, classe 1972, che è cresciuto nel Lecco e ha accarezzato il sogno di entrare nelle giovanili dell’Inter, ma una volta sfumato ha proseguito tra i dilettanti. Oggi Pomi è malato di Sla e sarebbe il quarto caso nel Lecco, se si considerano i passaggi in quest’altro ramo del Lago di Lombardi (vi militò nelle stagioni 1969-’71) e Gabbana (nel 1980’81). Il terzo caso di morte di Sla tra le file lecchesi è quello di Sauro Fracassa, morto nel 2000, a 57 anni. Fracassa nella stagione 1965-’66 fu tra i protagonisti dell’ultima promozione in Serie A. «Qui tutti i tifosi si ricordano di mio padre Sauro, così come sanno che si tratta di un altro ex calciatore morto di Sla. Quando si è ammalato andai a trovarlo nelle Marche dove viveva. Inciampava quando camminava ma cercava di nasconderlo… Non voleva accettare quella malattia, preferiva non parlarne», ricorda suo figlio, Arturo Fracassa, anche lui noto a Lecco, ma come cantautore. Oltre ai quattro casi di morti di Sla nel Lecco, c’è stata anche una strana concentrazione di casi di “morti misteriose”. A cominciare da quella di Rino Gritti, ucciso a 35 anni da un mesotelioma. «Il professor Cassinelli che lo aveva operato non sapendo che mestiere avesse fatto mi chiese: ma suo marito lavora in fabbrica? - ricordava ad Avvenire la vedova di Gritti, la signora Lina -. Sul polmone idrofizzato avevano trovato una coltre d’amianto, dura come un sasso». Lo stadio Cantarelli, oggi il Rigamonti-Ceppi di Lecco (impianto inaugurato nel 1922) sorge nella zona dove fino al 1990 erano attive le Acciaierie e Ferriere del Caleotto. Dopo Lecco, Gritti andò a giocare alla Ternana, anche questa città siderurgica, sede delle altrettanto storiche Acciaierie. «Ci sembrò tutto molto strano, ma chi poteva ricollegare allora a quello che adesso si sente dire in giro tutti i giorni: sulle sostanze dopanti e schifezze del genere... Certo il sospetto ci può anche essere, ma ormai...», disse il fratello di Gritti, Luigi, che venne convocato a Torino dal giudice Raffaele Guariniello che indagava sulle morti misteriose dei calciatori. Così come alla Procura di Torino venne ascoltato anche l’attaccante Nello Saltutti, passato dal Lecco nella stagione 1967-’68 ma che poi la sua carriera l’aveva fatta al Milan e alla Fiorentina. Saltutti è morto a 56 anni per problemi cardiaci che era certo fossero derivati da certe pratiche “poco pulite”. «Ci riempivano di Micoren, un farmaco che tanto bene non faceva visto che nell’85 l’hanno tolto dal commercio. Prima della partita, c’era sempre un “caffè speciale” che non si sapeva di cosa fosse fatto, ma in campo ci faceva andare il doppio degli altri. Sul tavolino fuori dello spogliatoio trovavamo sempre i flaconi delle pillole, le boccette con le gocce, flebo modello damigiane e punture a volontà...», confessò Saltutti ad Avvenire nell’ambito del nostro dossier “Il giallo Viola”, sulle morti dei calciatori della Fiorentina degli anni ‘70. Moti per cui i Nas di Firenze in chiusura dell’inchiesta scrissero che c’era prova di «abuso di farmaci» In quella Fiorentina giocò anche l’ex Como Giuseppe Longoni, morto di vasculopatia nel 2006 . « Non accuso nessuno ma a me sembrano coincidenze piuttosto strane tutte queste morti dei compagni del mio Giuseppe», ammise ad Avvenire la signora Grazia, vedova di Longoni. Un grande accusatore delle “morti bianche” del calcio è stato un altro ex del Lecco, Ferruccio Mazzola, il figlio del grande Valentino e fratello di Sandro, spentosi a 64 anni a nel 2012 per un tumore al polmone, il cui libro autobiografico, Il terzo incomodo (Bradipolibri) oggi va riletto come un j’accuse contro quel calcio marcio contro cui si era battuto.

Massimiliano Castellani

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