domenica 18 dicembre 2011
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Amos Oz non si stupisce quan­do gli si chiede di parlare della speranza. È il grande tema dei suoi libri, tra cui spicca il capolavoro U­na storia d’amore e di tenebra, autobio­grafica cronistoria di una famiglia che riesce a sopravvivere perfino al dolore più grande, quello causato dal suicidio della madre. E la speranza è anche la parola d’ordine di Israele, lo Stato in cui il giovane Amos si è formato, tra il cor­tile di Karem Avraham (il quartiere di Gerusalemme che fa da sfondo a gran parte della sua produzione) e il kibbutz, dove per un un lungo periodo ha con­tinuato a servire nonostante la sua fa­ma di romanziere fosse in continua cre­scita. Ora, all’età di 72 anni, è conside­rato uno degli autori più importanti del suo Paese, un intellettuale molto ascol­tato in patria e all’estero. Anche in que­sto, ha tenuto fede alla determinazione con cui, poco più che adolescente, de­cise di rinunciare al cognome paterno, Klausner, per assumere quello di Oz, il termine ebraico per “forza”. La speran­za, per lui, coincide con l’atto stesso del­la scrittura. Anzi, con il momento che la precede immediatamente, quando ci si siede alla scrivania, si accende la lam­pada e si cerca di fare chiarezza dentro di sé. «Ogni storia è basata sulla spe­ranza – ribadisce al telefono dalla sua casa di Arad, nel deserto del Negev. – Non importa quanto possa appari­re pessimista, malinconica o ad­dirittura disperata. Chi la rac­conta si aspetta comunque che ci sia qualcuno in ascolto, un altro disposto a leggere e a creare così un legame di con­divisione. Scrivere è un atto di speranza e la speranza è u­na necessità umana elemen­tare, irrinunciabile».

Crede che questa sua convinzione sia in qualche modo influenzata dal fatto di essere nato e cresciuto in I­sraele? «Certo, Israele è un Paese che nasce dai sogni e dalla speranza. Anche in questo caso, è esistito nei libri prima di esiste­re nella realtà. Prenda le opere di Theo­dor Herzl, uno dei padri del sionismo. Un suo romanzo del 1902, Altneuland, descrive uno Stato ebraico che, all’e­poca, appariva del tutto ipotetico, E la stessa Tel Aviv, prima ancora di essere una città reale, è stata romanzesca­mente immaginata da Herzl. Tutto quello che oggi appartiene all’orizzon­te quotidiano degli israeliani si è mani­festato inizialmente come sogno e co­me oggetto di speranza. Proprio per questo, però, il nostro Paese ha richie­sto scelte molto pragmatiche, talvolta drastiche. Tra speranza e realismo il le­game è strettissimo, inscindibile». Il realismo impedisce oggi una solu­zione del conflitto palestinese? «Al contrario, direi: il realismo impor­rebbe semmai di accelerare una deci­sione che in questo momento appare più visibile e possibile di quanto lo fos­se in passato». Si riferisce alla divisione in due Stati distinti, uno per gli ebrei e uno per gli arabi? «Certo, è un compromesso che in que­sto momento incontrerebbe larghissi­mo consenso. Tutto dipende dalle de­cisioni che verranno prese a livello po­litico. Diciamo così: il paziente è pron­to per l’intervento, ma i medici sono troppo spaventati per eseguirlo». In alcuni suoi libri, come nel «Monte del Cattivo Consiglio», da poco tradot­to in italiano, domina un sentimento di attesa, addirittura di incertezza. Anche questo ha a che vedere con la speran­za? «Vede, le storie raccolte nel Monte del Cattivo Consiglio , sono ambientate in un periodo storico molto preciso, il biennio 1946-1947. Subito dopo la Shoah, subito prima della nascita del­lo Stato ebraico. Un periodo di grande incertezza, ma anche di fortissime a­spettative. Mi ricordo bene una battu­ta che circolava a quell’epoca: “In I­sraele, si diceva, se non credi nei mira­coli, significa che non sei abbastanza realista”. La penso ancora così». Fino a non molto tempo fa Israele e il Medio Oriente erano considerati una zona a rischio sulla scena internazio­nale. L’Occidente si sentiva al sicuro da sostanziali minacce. Poi è venuto l’11 settembre, è venuta la crisi economi­ca. E adesso come la mettiamo?«Le ricorda anche lei le previsioni sulla “fine della storia”, vero? Circolava la convinzione che l’Occidente avesse or­mai ottenuto tutto quello che deside­rava. Da lì in poi, si sosteneva, il futuro sarebbe stato stabile, privo di sorprese. Non è andata così, ora possiamo dire che si è trattato di una previsione cla­morosamente sbagliata. Nello stesso modo, tuttavia, ci rendiamo conto di quanto sia tornata ad esserci cara la speranza. Non è una virtù per tempi tranquilli, ma è l’unica virtù di cui ab­biamo necessità assoluta nelle epoche di instabilità e incertezza, come questa che stiamo vivendo». Ma in epoche come la nostra anche la paura rischia di avere il sopravvento... «La paura è soltanto l’altra faccia della medaglia, per questo non va temuta troppo. Speranza e paura sono separa­te da una linea sottilissima, ma per for­tuna ciascuno di noi può decidere da che parte stare». Come? «Rispondendo a una domanda molto semplice: io che cosa posso fare? La re­sponsabilità individuale è il primo dei due pilastri su cui poggia la speranza». E l’altro qual è? «La solidarietà sociale, che personal­mente ho sempre considerato come la vera “terza via” tra il darwinismo eco­nomico del capitalismo e il totalitari­smo ideologico del comunismo. In que­sti tempi di crisi economica, occorre­rebbe un ripensamento a livello inter­nazionale sui parametri di una nuova solidarietà. Sarebbe una prova di gran­de concretezza e, quindi, un coraggio­so atto di speranza». Per i cristiani la speranza è una virtù teologale: pensa che occorra un atteg­giamento religioso per praticarla? «Considero la speranza un elemento u­niversale, che precede il manifestarsi storico delle religioni. Sono convinto che anche l’uomo di Neanderthal, nel­le sue caverne, coltivasse un sentimen­to di speranza. È un atteggiamento che attraversa tutta l’esperienza umana, fin dall’alba della storia». Lei si è occupato spesso del tema del fondamentalismo: lo considera anco­ra un pericolo? «Penso che sia la più grande sfida che il XXI secolo è chiamato ad affrontare. Ma attenzione, sarebbe un errore ritenere che esista soltanto il fondamentalismo religioso. Se ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto che sono in atto deri­ve fondamentaliste in senso nazionali­sta e addirittura in senso ambientali­sta. L’importante è che ciascuno di noi impari a riconoscere e a contrastare il fondamentalista che cova dentro di sé. In questo senso, lo ripeto, la speranza si basa anzitutto sulla responsabilità in­dividuale ». Molti suoi libri narrano storie di fami­glia: è lì che si può imparare la spe­ranza? «In famiglia si impara tutto. Meglio, la famiglia è una buona scuola per qual­siasi materia. Per la speranza, ma anche per la disperazione. È il microcosmo della vita umana, oltre che il tema cen­trale della letteratura. Vede, se mi chie­dessero di sintetizzare in una sola pa­rola l’argomento dei miei libri, rispon­derei con “famiglie”. Se me ne conce­dessero due, invece, direi “famiglie in­felici” ». E se le parole fossero tre? Qui Amoz Oz fa una pausa, poi scandi­sce in inglese: Read my books (“Legge­te i miei libri”). E questo, giochi di pa­role a parte, rimane un ottimo consi­glio.

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