sabato 21 agosto 2010
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«Lui arrivò al culmine e subito lanciò gli occhi in alto alla villa, senza fermarsi, quasi inciampando nella prima discesa. Nel riequilibrarsi livellò gli occhi e si vide davanti i soldati. (…) Erano una cinquantina, sparsi per i campi, in tutte le direzioni...». Fu in quel preciso momento che Milton capì. Non c’era più speranza, era capitato proprio in mezzo, come una lepre (o una volpe, preda assai pià nobile, gli piacque pensare in una frazione di secondo) stanata dai cacciatori. Ma non lo invase la disperazione, piuttosto un’improvvisa calma. Tutto era finito: camminare nel fango onnipresente, viscido, marcio, la pioggia battente da giorni che gli schiaffeggiava il viso, la nebbia insidiosa che aveva tradito Giorgio, le nere colline ovunque incombenti, come maligne presenze di fatica e di doloroso, interminabile andare. Giorgio era già morto, chissà, e con lui il suo segreto. Ma, si accorse Milton improvvisamente, ormai non gli importava. Forse Fulvia era davvero andata a letto con lui, anzi probabilmente lo aveva fatto, e la custode della villa glielo aveva raccontato, con allusioni man mano più esplicite, per simpatia o per invidia, chissà. Ma questo non importava più. Ora lui aveva davanti tutto il tempo del mondo, e Fulvia stava tornando. Anzi era già qui. La vide avanzare in mezzo alla pioggia, che si schiariva a contatto coi suoi capelli, scivolando lungo le lunghe trecce, e le faceva intorno al capo come un alone di goccioline luccicanti. Portava una camicetta bianca, che Milton ricordava bene, e canticchiava benevola Over the Rainbow. Sorrideva di un sorriso intimo e allusivo, rivolto solo a lui, che se ne sentì avvolto e riscaldato. "Allora forse anche per lei è la sua canzone preferita, solo che quella volta non me l’ha voluto dire", rifletté Milton, e si disse anche: "In questa calma, in questa pace meravigliosa, ecco che vedo tutto con chiarezza. Adesso potrei chiederlo direttamente a lei, ma adesso non m’importa più. Qualsiasi cosa ci sia stata con Giorgio, lei è mia per sempre, è sempre stata mia". E tutto gli parve improvvisamente sfocarsi, come avvolto e perduto in quella stessa nebbia dilagante, insidiosa, che tanto aveva tormentato nei giorni precedenti lui e i suoi compagni partigiani, tutti senza eccezione, sia gli "azzurri" badogliani, come lui, sia gli altri, i "rossi". Perché il tempo, ora se ne accorse, bizzarramente – ma con infinita sua consolazione – si era come diviso. Da un lato correva, e si portava via tutto, la sua vita degli ultimi mesi, la fiera amata compagnia dei suoi simili combattenti, la pena quotidiana, la fame e il riposo, l’esaltazione e l’avvilimento degli attacchi e delle fughe; dall’altro si era fermato, come sospeso, e si dilatava nello spazio intorno a lui, come un lembo di azzurro che si apre e si allarga nel cielo dopo la tempesta, e annuncia il sereno. In quel momento infinito, mentre lei avanzava verso di lui, si ricordò di Heathcliff, e di come aveva amato Cime tempestose. Sentì nelle vene la sua stessa passione esclusiva e folle, quell’occhio interiore polarizzato e fanatico che travolge l’essere amato in un vortice di estasi, ma anche di annullamento reciproco. Capì la sostanza di quel nesso misterioso fra amore e morte che l’aveva sempre intrigato e confuso, ma anche indicibilmente attratto. E lei disse, arrivando vicina fin quasi a sfiorarlo (ma lui sapeva che non poteva toccarla): "Non l’ho dimenticato, il libro che mi hai regalato, Tess dei d’Ubervilles. Non l’ho lasciato nella villa di proposito. Non dovevi farti sangue cattivo per questo. L’ho soltanto dimenticato, mio padre mi faceva fretta, e io lo tenevo in mano, ricordando i nostri pomeriggi, i tuoi discorsi, le tue lettere che aspettavo con tanta curiosità - e che amavo tanto. Oh mio Dio, quanto mi sei mancato!". Allora a lui tornò in mente quel pomeriggio d’estate sotto i ciliegi, quando lei aveva raccolto per lui i frutti più maturi, arrampicandosi pericolosamente sui rami più alti dell’albero; e poi quell’altra volta, quando si era sdraiata incurante sul prato umido, verso sera, col vestitino bianco (verde e bianco, verde e bianco, pensò Milton, come mi accecarono per sempre quei colori, quelle trecce sinuose, e il sorriso di lei visto dall’alto). In quel momento la sua concentrazione su Fulvia parve spezzarsi, e l’immagine viva di lei cominciò a impallidire. Suoni e grida scomposte che provenivano dal mondo esterno premevano ai margini della sua visuale. E fu allora che Milton fece la sua scelta, seguendo un impulso primordiale e assoluto. Si immerse in quel suo amore totale, e lo fece suo per sempre, dimenticando tutto, e tutto intorno a sé dissolvendo: e così lei tornò ad avanzare, leggiadra e inconsapevole. Forse quella di Fulvia era una menzogna pietosa, pensò diffidente Milton, ma a lui andava benissimo. Il mondo si colorava di nuovo di colori fiammanti, di gioia e di vita. Risurrezione tu sei per me, donna mia, pensò, vita e risurrezione. E nella sua memoria la villa tornò ad essere «il più luminoso posto al mondo». Rivisse ogni istante di quell’estate radiosa, riattraversò l’esperienza del primo incontro, e dei seguenti, del modo sapiente e altero, brusco ma affettuoso, con cui lei lo trattava, e lui era felice di essere trattato; rilesse le lettere che le aveva scritto, e che tanto le piacevano, le traduzioni degli amati testi inglesi che aveva fatto per lei; riascoltò il timbro della sua voce «non propriamente gradevole, ma lui era pronto ad accettare per esso la sordità a tutte le voci dell’umanità e della natura». E accettò di sprofondare in quell’universo chiuso e fatale, dove ogni oggetto toccato da lei diventava un simbolo vivente di quella sua luminosa bellezza che «l’aveva sempre, più che altro, addolorato», come il parquet della villa che «scricchiolava con un crepitìo astioso, maligno», o il terzo ciliegio del vialetto, quello su cui lei si era spavaldamente arrampicata per riempire il cestino, sorda alle sue preghiere, provocandolo, stuzzicandolo. Davanti a quell’albero glorioso bisognava fare una lunga sosta devota, pronunciando voti solenni. "Fulvia splendore, Fulvia amore mio", balbettò Milton estasiato, e non sentì le pallottole che gli grandinavano intorno, non percepì il dolore né fu sommerso dal buio che pure lo assediava; ma si aggrappò al sorriso misericordioso di lei, e sprofondò nella sua luce.
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