venerdì 19 gennaio 2018
In un libro Alan Taylor ricostruisce gli anni precedenti la Dichiarazione del 1776, quando lentamente maturò l’indipendentismo delle Tredici Colonie
Emanuel Leutze, "Washington attraversa il Delaware" (1851)

Emanuel Leutze, "Washington attraversa il Delaware" (1851)

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Prima di diventare orgogliosamente, baldanzosamente americani, gli americani stessi hanno fatto di tutto per rimanere inglesi. O, perlomeno, fedeli sudditi di sua maestà. L’affermarsi di un’identità coloniale “americana”, distinta da quella inglese, fu un processo che si sviluppò nell’arco di decenni, con il contributo determinante della madrepatria. Gli americani, soprattutto le élite, considerarono a lungo se stessi semplicemente come inglesi in trasferta: furono invece gli inglesi d’Inghilterra a percepire, anche a livello popolare, una differenza con quei loro concittadini considerati di Serie B, e che trattavano di conseguenza. Così, l’indipendentismo delle Tredici Colonie si affermò in gran parte in reazione a questa percezione di sé sviluppata attraverso l’altro. L’esito indipendentista non fu né scontato né lineare, e andò in gran parte al di là delle intenzioni dei suoi promotori e le cui contraddizioni avrebbero segnato profondamente la storia successiva degli Stati Uniti, a partire dalla Guerra di Secessione. Il primo merito del corposo studio di Alan Taylor (Una storia continentale 1750-1804 Einaudi. pagine 640, € 34,00) è proprio quello di porre in risalto la complessità del processo rivoluzionario americano, che colloca in un arco di tempo (17501804) molto più ampio di quello tradizionalmente associato alla rivoluzione americana. Taylor, storico dell’Università della Virginia, inserisce gli eventi delle colonie britanniche nel quadro più ampio dei rapporti commerciali, militari e territoriali dei grandi imperi coloniali che nel Settecento si contendevano l’egemonia continentale – Nordamerica e Sudamerica erano considerate e trattate come un tutt’uno. L’impero francese e l’impero spagnolo interagirono profondamente con quello britannico, e le sorti delle colonie della Costa Orientale degli attuali Stati Uniti fu in gran parte frutto di queste dinamiche, delle quali gli stessi coloni furono solo in parte attori attivi. Taylor individua come elemento detonatore il successo inglese della Guerra dei Sette Anni (1756-1763) che, con la cessione a Londra delle colonie francesi in Nordamerica – dal Québec alla Louisiana – accelerarono sia il confronto diretto dell’impero britannico con quello spagnolo, sia le dinamiche interne alle colonie.

L’avvio di un’espansione incontrollata verso Ovest portò al punto di rottura il già difficile equilibrio con le popolazioni indiane. In questo contesto, la vita politica delle colonie fu segnata dal confronto, spesso violento, tra le élite – proprietari terrieri e magnati commerciali – con lo spontaneismo e l’individualismo dei coloni, che consideravano le terre indiane res nullius e le occupavano anche contro la volontà del governatore regio. Un processo che spesso degenerò in conflitti tanto con l’élite coloniale quanto con gli indiani, mentre le stesse élite muovevano in modo ambivalente se non ambiguo, tra il tentativo di accaparrarsi a loro volta quei nuovi territori e la richiesta di sostegno, militare soprattutto, al sovrano. I “patrizi” delle colonie (tra loro figuravano i nomi di Franklin, Washington, Adams... quelli che sarebbero poi divenuti i capofila dell’indipendentismo) a lungo cercarono sponda in quella che continuavano a considerare la madrepatria, e in particolare nella figura del re. A Giorgio III tentarono a lungo di appoggiarsi anche nel conflitto con il Parlamento di Londra, sempre meno disposto dopo la Guerra dei Sette Anni a sostenere le ingenti spese per la difesa delle colonie senza che queste contribuissero con un’adeguata tassazione al loro mantenimento: gli americani pagavano assai meno imposte dei cittadini inglesi in patria.

Taylor si sofferma lungamente sui dettagli politici interni alle singole colonie, fin troppo lungamente per l’interesse di un lettore non statunitense, ma dà anche risalto alle condizioni di vita concreta e quotidiana degli americani del Settecento, con tratti vivaci e coinvolgenti. Meno convincente, invece, là dove paga pegno alle mode del politicamente corretto, con un’ostentata attenzione ai canoni che stanno prendendo sempre più piede nella storiografia contemporanea, soprattutto di marca anglosassone. Da un lato è indubbiamente meritorio allargare lo sguardo all’intera composizione delle colonie americane, non limitandosi alle dinamiche delle élite ma abbracciando anche quelle del popolo minuto e in particolare a quelle degli schiavi neri (all’epoca erano già la maggioranza della popolazione in alcune colonie, come la Carolina del Sud). Dall’altro lato, tuttavia, appare eccessiva se non ideologicamente motivata l’insistenza posta sulla partecipazione femminile, di fatto all’epoca assai marginale: il che può anche essere considerato, con gli occhi del XXI secolo, come un male, ma la valutazione e il racconto storico non possono trascurare lo iato temporale, e quindi sociale, delle dinamiche narrate. Per esempio, Taylor enfatizza il ruolo ricoperto dalle donne durante le campagne di boicottaggio delle merci inglesi, laddove tali campagne – decise e gestite da uomini – alle donne lasciavano appena il compito di... tessere in casa le stoffe che dovevano sostituire quelle d’importazione.

Allo stesso modo, il politicamente corretto si manifesta nell’attribuire alle mosse dei capitribù indiani logiche politiche fin troppo “europee”: «Ben consapevoli del vantaggio di trovarsi nel mezzo, i capi indiani speravano di poter scongiurare che un impero conquistasse le colonie dell’altro »... Alla fine, per voler combattere il tradizionale eurocentrismo della storiografia si finisce per cadere in un eurocentrismo delle idee, che applica ad altre epoche storiche sensibilità e ragionamenti propri dell’Occidente contemporaneo e ovviamente estranee al Settecento. Si rischia sempre l’incoerenza tra la corretta rivalutazione di elementi tradizionalmente sottovalutati con l’eccesso di enfasi posta su aspetti marginali delle società del tempo. Ma Taylor, storico di vaglia – due volte premio Pulitzer –, riesce a rimanere ancorato alla prima delle due dinamiche, facendo passare in secondo piano le divagazioni della seconda.

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