martedì 23 giugno 2015
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L’altro giorno pranzavo con alcuni amici in un ristorantino di Soho e qualcuno mi chiese cosa pensavo dell’America, dove ero stato a fare letture per circa quattro mesi. Parlai dell’America come del paese più educato che avevo conosciuto, della sua popolazione pulita, ben vestita, così diversa da quella di Londra o Dublino; delle case deliziose dove si vede la tradizione di William Morris mescolata a quella nativa, proveniente dal tempo delle colonie; degli edifici del Western college dove l’architettura della vecchia Spanish Mission House è adattata a nuovi usi; di colleges che guidano i loro distretti in tutti gli affari intellettuali; di donne che non sono aggressive, sebbene abbiano frequentato il college; di tutta quella vita vivace dove ogni cosa è più intensa che da qualunque altra parte – una sete di denaro, idee, potere, al di là della nostra comprensione. Sono tornato, dissi, credendo come mai mi era capitato prima, nel futuro del mondo, non soltanto il remoto futuro in cui la bellezza e il benessere saranno ritornati all’uomo, ma quello immediato della fatica e del disordine. [...]A quel punto, un inglese presente disse: «Lei e io litigheremmo subito, perché io sono un buon inglese». E si alzò e andò via. Avevo scordato che parlavo di una civilizzazione che ha influenzato il mio paese così costantemente, che è naturale per un irlandese amarla, come è naturale per un inglese disdegnarla, o apprezzarla con della condiscendenza. Degli amici mi avevano detto che in America non avrei certamente trovato alcunché di apprezzabile, e avevo finito per pensare che in ogni caso per me – un artista – non ci sarebbe stato nulla. E invece vi trovai quel che è di sicuro la radice di ogni piacere per un artista, molte persone colte in ogni città, con cui si poteva discutere delle cose più interessanti. In Inghilterra a fatica si trovano persone simili tranne che a Londra. [...] Ma in America dappertutto – Indianapolis, Minneapolis, Chicago, St. Louis, New York e San Francisco nel lontano ovest – si trovano persone di una sola stessa tribù, anime liberate, partecipi dei misteri, per così dire. Le parole di Morris e di Ruskin hanno trovato ascoltatori che hanno capito meglio a causa di Thoreau e di Emerson; e dovunque uno trova la propria medesima scala di valori. Si potrebbe aprire casa senza temere da qualunque parte, dove i cieli sono più blu e le ombre più profonde. [...]
 
Forse l’assenza di una aristocrazia ereditaria ha qualcosa a che fare con la curiosità intellettuale. Un americano si vanterà con voi delle sette generazioni di padri che sono andati al college, come un inglese delle proprie relazioni nobili. Ha perfino inventato il termine «allevati al college», e si può vedere che l’educazione apre all’uomo o alla donna porte che solo la nascita o la ricchezza potrebbero aprire qui da noi. L’educazione è la passione nazionale, e dappertutto si trova un college che ha la sua vita distinta, e porta i suoi talenti fuori del proprio territorio. E dappertutto la gente poverissima lesina e risparmia per mandare i figli al college, capendo che il loro paese offre tutte le forme di benessere e di potere alla mente disciplinata. Sono stato in molti colleges, e ci sono andato aspettandomi di trovare l’insegnamento vigoroso di qualunque cosa porti al successo professionale, ma non mi aspettavo di trovare un insegnamento immaginativo. Eppure anche qui la mancanza di un ordine ereditario ha portato fuoco e vigore. Un insegnante deve interessare i suoi allievi, perché se li annoia nessuna incontestabile tradizione li terrà ad ascoltarlo.In molti posti ho trovato studenti messi ad analizzare per l’intero loro primo anno di letteratura il romanzo moderno, e in una grande scuola gli allievi non leggono altro che le saghe norrene a lungo, perché le saghe, mi ha detto il preside, più di tutto gli mescolavano il sangue. Il direttore di un college mi disse: «Gli inglesi hanno inviato una commissione per scoprire come insegniamo scienza, pensando che il nostro successo commerciale dipenda da essa, ma ho detto loro che veniva da tutta la nostra vita e che l’immaginazione è più della scienza». Gli uomini sono per la maggior parte troppo occupati a mostrare il loro lato immaginativo al di fuori dei loro affari, ma uno scopre le donne, che sono immaginose, impulsive, curiose verso le idee, proprio nella misura in cui sono state ben educate, secondo l’accezione convenuta della parola.
 
Ho parlato a molti colleges femminili e ho incontrato poche donne che non siano state in un college o in un altro, eppure non ho incontrato mai la tipica donna polemica dei colleges inglesi, che doveva avere forse un felice fascino naturale, ma che ha appreso una posa infelice. Sempre ipercritica, sempre in battaglia per delle banalità, la sua mente foggiata per la gioia e il trionfo, è piena di virulenta stizzosa negazione; uno preferirebbe sedere a pranzo con un ospite che ha sparso dei chiodini nella zuppiera piuttosto che conversare con lei; ma queste donne americane sono così affascinanti, così ben educate in tutte le cose fondamentali, come se avessero trascorso la giovinezza nell’impulsiva laboriosa ignoranza dello studio. Con quale segreto questi insegnanti hanno imparato ad allargare così l’immaginazione e le simpatie di coloro che non sono nati per alcuna arte creativa, e a renderli così umani come se avessero tenuto in mano il pennello e il cesello. La preside di un grande college femminile mi disse: «Ho notato la differenza tra le donne istruite inglesi e le nostre, ed è che a loro insegnano ad insegnare in Inghilterra, mentre noi le prepariamo per la vita».
 
Traduzione di Rosita Copioli
 
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