martedì 1 luglio 2014
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Esultanza e rabbia. Sfilate a clacson aperti sugli Champs-Élysées e scontri con i poliziotti a Marsiglia e Lione. Oltralpe, nelle notti lunghe del Mondiale, i festeggiamenti dei tifosi con radici familiari algerine hanno pure conosciuto note stonate. Persino l’occasione della storica avanzata dei fennec magrebini oltre il girone di qualificazione ha finito per rivelare il guazzabuglio di sentimenti fra due Paesi che si scrutano con passione e sospetto da oltre mezzo secolo.Se tanti raffinati sociologi hanno gettato la spugna di fronte alla matassa inestricabile, la letteratura tenta ancora di esprimere l’indicibile, magari sfruttando lo spazio bianco fra le righe dei romanzi. Albert Camus, il premio Nobel francese con il cuore rimasto impigliato nell’Algeria natale, aveva aperto la strada. E proprio sulla scia di Camus tanti altri hanno cercato di aggiungere note e accordi alla rapsodia, di recente soprattutto in Algeria, dove sta emergendo una nuova generazione di talentuose penne francofone, talora già pluripremiate pure in Europa, come Boualem Sansal.Adesso, a tentare di lanciare uno sguardo originale sul garbuglio franco-algerino è Kamel Daoud, narratore noto finora soprattutto per i suoi editoriali politici al vetriolo sul «Quotidien di Oran» contro il potere di Algeri. Nel romanzo Meursault, contre-enquête (Actes Sud, pagine 160, euro 19), Daoud esplora i volti e i luoghi rimasti fuori campo nello Straniero, riconsiderando il capolavoro di Camus pubblicato nel 1942 come una testimonianza su un assassinio realmente commesso sul litorale d’Algeri. Il protagonista è appunto Meursault, un uomo refrattario a ogni sentimento. Non soffre per la morte della madre – con cui il libro si apre – e non prova rimorso per l’uccisione dell’arabo», un delitto inspiegabile e gratuito, che si pone sotto il segno di una gelida fatalità. Pur essendo ambientato nell’Algeria francese, il racconto non si riferisce mai alla comunità araba, dalla quale proviene però la vittima. Fin dalle prime righe, Daoud ribalta specularmente questo punto di vista, in una “controinchiesta” costruita al contempo come sfogo e come confessione della voce narrante Haroun, fratello minore proprio dell’«arabo», ovvero Moussa. Prima lo sfogo: «Mio fratello Moussa era capace di aprire il mare in due ed è morto nell’irrilevanza, come una volgare comparsa, su una spiaggia oggi scomparsa, accanto ai flutti che avrebbero dovuto renderlo celebre per sempre!». Poi la confessione, dato che Haroun ha a sua volta ucciso un francese per riflesso di «giustizia degli equilibri». Giunto al crepuscolo di una vita di tormenti e frustrazioni, Haroun non smette di bere e rimuginare. Sta forse perdendo la ragione e la memoria, a furia di rivangare sempre lo stesso vecchio fango.L’espediente narrativo pare un modo per riaffermare che le storie delle vittime premono sempre fuori dal quadro, anche quando nessuno le ha viste o ha voglia di ascoltarle. Haroun non spera affatto d’imporre la sua verità, ma si porta dentro un bisogno assoluto di parola che è pure quello di tutta una generazione. In un modo o nell’altro, la sua voce cerca un varco in mezzo alle foreste di parole ufficiali e agli edifici troppo rettilinei della memoria di Stato. In Francia, il breve romanzo sta ricevendo giudizi favorevoli, anche per l’efficace ritmo narrativo trovato da Daoud. In rivolta contro il cielo e la terra, Haroun è un coacervo di ambiguità anche morali e riflette a suo modo i baratri e i ponti crollati della storia collettiva. Di certo, colpisce il bisogno dell’autore di aggrapparsi al testo di Camus. Alla fine, il progetto di Daoud può apparire come un tentativo d’eco o almeno di risonanza, se non di un nuovo ponte fra l’ex colonia e l’ex madrepatria. Come se occorressero sempre più voci, la ricerca di una sorta di polifonia, per darsi il coraggio d’affrontare i viluppi più vischiosi e amari della memoria.
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