sabato 4 maggio 2019
Nel 1919 nasceva l’Ana, associazione che riunisce chi ha militato nelle truppe di montagna: oltre al compito di tramandare la storia del corpo si è sempre impegnata accanto alla società civile
La prima adunata nazionale degli alpini sul Monte Ortigara, nel settembre del 1920

La prima adunata nazionale degli alpini sul Monte Ortigara, nel settembre del 1920

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«Si vedevan venire innanzi centinaia di lunghe penne diritte, che sorpassavano le teste degli spettatori: erano gli alpini, i difensori delle porte d’Italia, tutti alti, rosei, e forti, coi cappelli alla calabrese e le mostre di un bel verde vivo, color dell’erba delle loro montagne». A fondare il “mito degli alpini” hanno contribuito anche nomi illustri della nostra letteratura, come Edmondo De Amicis, che così parla delle penne nere nel suo libro Cuore. Ma, soprattutto, la storia di questo glorioso corpo dell’Esercito italiano affonda le proprie radici nelle sabbie roventi della Libia, sui ghiacciai della Guerra Bianca e nella gelida steppa russa durante la tragica ritirata del gennaio 1943.

Sono questi i luoghi che, scorrendo le pagine di Alpini. Una grande storia di guerra e di pace, firmato da Stefano Ardito per Corbaccio (pagine 272, euro 18,00), hanno contribuito alla grandezza degli alpini, che hanno scritto col sangue pagine importanti della storia d’Italia. Da un secolo, questa storia gloriosa e tragica è tramandata dall’Associazione nazionale alpini, fondata a Milano nel 1919 da un gruppo di reduci della Grande Guerra, che proprio nel capoluogo lombardo celebrerà la sua 92esima Adunata nazionale dal 10 al 12 maggio. Tre giorni per raccontare “Cento anni di coraggioso impegno”, come recita lo slogan scelto per l’occasione. Un secolo speso dall’Associazione, che oggi conta poco meno di 350mila soci, al fianco delle popolazioni dei paesi di montagna, dove è diventata una vera e propria istituzione, «aiutando i vivi per onorare i morti», dice un’altra, bella espressione che condensa, in poche parole, l’essenza stessa dell’essere alpino. «La gente ci vede come siamo davvero, cuore generoso a braccia operose – amava dire Leonardo Caprioli, che è stato presidente nazionale dell’Ana –. Finché l’Italia avrà gente di questa meravigliosa pasta, può stare certa di avere un ancoraggio sicuro». Già, ma fino a quando potrà resistere un’associazione d’arma dopo la sospensione della leva obbligatoria, che, gioco forza, ha tolto linfa vitale a una realtà costituita da ex-militari? «La forza degli alpini e dell’Ana sta nella loro capacità di adattamento», spiega lo storico Filippo Masina, che, in occasione del compleanno dell’Associazione, ha scritto uno dei volumi della trilogia “Studi storici per il Centenario dell’Ana”, che ripercorre questo secolo con la penna nera. «Pur con numeri più ridotti – spiega Masina – l’Associazione ha mantenuto caratteri di massa, perché ha saputo adattarsi ai cambiamenti della società italiana, diventando uno dei principali “corpi intermedi” per numero di associati, quantità e qualità di iniziativa sul territorio. Possiamo ben dire che, in questi cent’anni, l’Ana si è guadagnata sul campo un consenso assolutamente meritato».

A cementare nel sentire comune il mito degli alpini, hanno contribuito anche figure di uomini illustri, a cominciare dal fondatore, il capitano Arturo Andreoletti, che fu anche presidente per diversi anni e promosse l’idea che l’Associazione fosse aperta a tutti gli alpini, senza distinzione di grado o di zona di appartenenza, dando all’Ana una vera e propria «identità», ricorda Masina. Successivamente trasmessa alle giovani generazioni, sottolinea lo storico, dall’intellettuale Vitaliano Peduzzi che, per primo, usò diffusamente il termine “alpinità” per definire l’essenza stessa degli uomini con la penna sul cappello. «Fino all’avvento del Fascismo – spiega Masina – gli alpini erano chiamati “scarponi”, un termine che rimandava alla ruvidezza dei soldati di montagna. Dopo la tragedia della guerra si parlò di “spirito alpino”, che richiamava anche il martirio sui campi di battaglia della Grecia, dell’Albania e della Russia, fino a quando, negli anni ’70, in piena contestazione, Peduzzi lanciò l’“alpinità”, per racchiudere, in una parola sola, ma di grande effetto, la summa delle qualità attribuite agli alpini. In primis quella generosità disinteressata, quella propensione all’impegno civile gratuito, che li hanno fatti amare da generazioni di italiani e che, ancora oggi, li rende subito riconoscibili alle popolazioni alle quali portano aiuto».

È stato così dopo la tragedia del Vajont del 1963 e dopo il terremoto del Friuli del 1976 e dell’Irpinia nell’80, fino al sisma che ha distrutto L’Aquila nel 2009 e i paesi del Centro Italia nel 2016. «Queste sono tragedie di cui è complice l’uomo – scrive Ardito nel suo Alpini –. Ma gli alpini non protestano, lavorano. È uno dei motivi per cui sono così amati». E, aggiunge Masina, in una società che ha fatto della cura del proprio particolare uno stile di vita, questi uomini generosi con la penna nera in testa «sapranno stupirci ancora». A cominciare dai grandi numeri che sono capaci di mobilitare durante i tre giorni dell’Adunata nazionale, che porta nella città ospitante, più di mezzo milione di persone, tra alpini, familiari e amici. «L’Adunata – sottolinea lo storico, che ha concentrato la propria ricerca sul vincolo associativo che in cent’anni ha unito migliaia di penne nere – è un momento complesso per elaborare e veicolare messaggi e contenuti, anche dal grande valore politico. Dove con questo termine si intende, non certo la politica partitica, ma la cura della “polis”, l’attenzione costante e disinteressata al bene comune. Possiamo dire – conclude lo studioso – che gli alpini “usano”, con intelligenza, la loro Adunata nazionale, che non è un semplice ritrovarsi, per lanciare messaggi alla politica e alla società. Come quando protestarono per la sospensione della leva obbligatoria, che loro chiamano ancora oggi “naja”, oppure quando fecero sfilare, insieme agli ex-soldati, anche i volontari della Protezione civile, rendendo così visibile a tutto il Paese (ma anche ai palazzi del potere) una risorsa che poi, anche grazie agli alpini, è diventata uno dei capisaldi della sicurezza dei nostri territori».

Non una ritualità vuota e fuori dal tempo, insomma. L’Adunata è semmai la più grande manifestazione di piazza mai promossa in Italia. Un’immagine di “potenza”, concentrata soprattutto nell’infinito sfilamento della domenica, che dura anche dodici ore, ma di una forza gentile, generosa e pulita. Che si impone con l’importanza dei numeri. Anche quelli della solidarietà e del lavoro gratuito a favore di tante, tantissime comunità di montagna che, a causa del progressivo spopolamento, sarebbero, invece, destinate a sparire.

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