sabato 1 luglio 2023
Il centrale difensivo del Padova sbarcò con la sua chitarra direttamente dal college, nell’estate del 1994, diventando il primo yankee a giocare in Serie A. Il racconto d'autore di Furio Zar
Alexi Lalas nel 1994, tra le file del Padova

Alexi Lalas nel 1994, tra le file del Padova

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Una volta si arrabbiò durante un allenamento, ed era strano, non si arrabbiava mai, si lasciava scivolare tutto addosso. Però quella volta chissà, così abbandonò il campo e se ne andò, mentre i compagni lo imploravano di smetterla, dai Alexi torna qua, ma dove vai? E niente, come Forrest Gump uscì dal cancello di casa e cominciò a correre, così lui si lasciò alle spalle il campo, lo spogliatoio, gli impianti sportivi e arrivò sulla strada provinciale di Bresseo e cominciò a camminare, sotto il sole del dopopranzo primaverile, con le macchine che gli sfrecciavano accanto, in divisa da calciatore - pantaloncini corti, la tshirt, le scarpe chiodate - i capelli rossi e ricci raccolti con l’elastico, il pizzetto, un improbabile Generale Custer uscito da chissà quale circo.

Era un alieno, era spontaneo, era un uomo intelligente, era un calciatore fuori catalogo, era diverso, soprattutto era diverso. Era Alexi Lalas, il primo americano a giocare in Serie A nel dopoguerra. Arrivò nell’estate del 1994, reduce dal Mondiale giocato a casa sua, negli Usa. Aveva ventiquattro anni, fino ad allora aveva giocato solo nei college, il Padova gli garantì un ingaggio di 250 milioni di lire.

All’epoca studiavo Storia del Cinema all’Università di Padova, stavo preparando la tesi di laurea. Con gli amici facevo la classifica dei film più sottovalutati nel cinema italiano - nessun dubbio, al primo posto: Una vita difficile, capolavoro assoluto - leggevo Kurt Vonnegut e Stefano Benni, giocavo a pallone, ala destra, e avevo vissuto da tifoso l’ultima straordinaria stagione del Padova, quella che nell’anno del congedo dall’Appiani si era chiusa con la promozione in Serie A. Il Padova si spostò poi all’Euganeo, nell’obbrobrio di tubi innocenti (almeno loro) che mandò in galera mezza classe politica padovana, travolta dall’onda d’urto di Mani Pulite. Per il resto dell’Italia l’Euganeo era lo stadio senza curve - in effetti: non c’erano, lo ricordava ogni volta anche Everardo Dalla Noce collegato per “Quelli che il calcio” ma per noi padovani era un oltraggio, un non luogo, una ferita al cuore. Il carcere Due Palazzi, a milleseicento metri in linea d’aria dall’Euganeo, aveva un’aria più accattivante. Comunque il Padova di Lalas - e di Vlahovic e di Kreek, di Galderisi e Gabrieli, di Longhi e Maniero - si salvò, nonostante lo stadio più brutto del pianeta-calcio.

Lalas fu un’apparizione, come Mork quando compare in Happy Days. Dopo due giri di accordi - certo, Alexi suonava la chitarra - si fece subito amare. Arrivava dal Midwest, indossava jeans strappati, camicie a scacchi aperte e t-shirt consunte. Erano gli anni del grunge, lo sfarzo era considerato volgare. Nessuno cercava la rivoluzione, ma una disperata nonchalance nell’accettare la vita. A Ponte San Nicolò - alle porte di Padova - un gruppo di amici fondò la “Grunge Band of Santo”. Pure Lalas aveva una band, con i Gypsies girava l’America in tour, incisero tre dischi, scoprimmo poi che erano tra i favoriti di Chelsea Clinton, la figlia del Presidente.

Lalas piaceva perché era lui, ma faceva di tutto per essere uno di noi. Frequentava la città, girava a passeggio per le piazze, aveva una ragazza, la californiana Jill, ma non disdegnava la compagnia, non di rado lo si poteva trovare a suonare in qualche locale, più di altri al Limbo, nella centralissima via San Fermo. Parlava in dialetto, glielo aveva insegnato un compagno di squadra, il padovano Pippo Maniero.

Una volta andò alla Domenica Sportiva, con la chitarra a tracolla. Diede il cinque al conduttore, Gianfranco de Laurentiis, che rispose come se fossero in un McDonald's di San Francisco, anziché negli studi Rai di Corso Sempione. Alla co-conduttrice Alessandra Comazzi disse: «Ciao, bela, como stai?». Inevitabilmente, suonò anche quella volta. Dopo una partita persa uscì a piedi dallo stadio, come faceva sempre, mescolandosi con i tifosi. Il Padova aveva appena perso. Cominciarono ad insultarlo. Lalas si stupì, era sinceramente sbalordito. Avvicinò il gruppo dei più agguerriti. «Ma perché ce l’avete con me? Mi sono impegnato, come tutti noi. Abbiamo perso, ma nel calcio si vince e si perde. Dov’è il problema?». Miracolo: quelli si zittirono.

Fu un pioniere, Lalas. L’americano in Italia, seguono tutti i dettagli in cronaca. Diceva: «Non sono il difensore più forte del campionato, ma il più bello». Scene da pop-star: al caffè Pedrocchi, dopo una premiazione, dopo un bagno di folla, Alexi e compagni furono costretti a uscire sgattaiolando dalle cucine sul retro. Sergio Giordani, il presidente di quel Padova, oggi sindaco della città, disse che un giorno il segretario del club gli fece avere un giornale del Bangladesh che parlava di Lalas in una città del Nord Italia. Patova. Al netto del refuso, l’obiettivo era stato raggiunto.

Lalas fronteggiò i migliori attaccanti di quel momento, da Baggio a Del Piero, da Vialli ad Asprilla, da Balbo a Batistuta, da Zola a Signori, da Skuhravy a Gullit. Mai sfigurò. Rimase a Padova due anni. Il primo anno la squadra si salvò, nello spareggio-salvezza di Firenze, battendo il Genoa ai rigori. Il secondo anno finì mestamente con la retrocessione in B. In Serie A collezionò 44 presenze, segnando 3 gol, il più iconico al Milan, all’Euganeo. A quel punto Lalas chiuse la cerniera della custodia della chitarra e tornò a casa. Firmò con i New England Revolution. Giocò ancora sette-otto anni, disputò il suo secondo Mondiale in Francia, sfiorò le cento presenze con la nazionale a stelle e strisce, divenne manager di un paio di club, presidente dei Los Angeles Galaxy.

Oggi fa il “Soccer Analyst”, qualche anno fa è tornato a Padova: è stata una bella rimpatriata tra amici, con Giordani, con i compagni di allora, con i tifosi che gli hanno voluto bene. Si è sposato, ha avuto due figli. Si è anche tolto lo sfizio di laurearsi, alla Rutgers University del New Jersey. Ha postato una foto sui social, era irriconoscibile: si era tagliato i capelli, sbarbato come un liceale, eliminato il pizzetto, la basetta curatissima. Emanava un fragore di lavanda. Sembrava uno uscito da Wall Street, non dal rock and around di quella Little Big Horn che era la Serie A negli anni 90.

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