martedì 29 novembre 2022
Il teologo morì il 2 dicembre di un anno fa: fu segretario generale CCEE e nunzio apostolico. Venerdì la commemorazione a Cuneo con Migliore e Coda
Aldo Giordano

Aldo Giordano - Siciliani

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Nato a Cuneo il 20 agosto 1954, Aldo Giordano è scomparso a Lovanio il 2 dicembre di un anno fa. Ne ricordiamo la figura attraverso una ricostruzione del filosofo Francesco Tomatis (Università di Salerno) del pensiero teologico. Ordinato sacerdote nel 1979, insegnò filosofia allo Studio Teologico Interdiocesano di Fossano dal 1982 al 1995. Dal 1995 al 2008 fu segretario generale del Consiglio delle Conferenze episcopali europee a San Gallo; dal 2008 al 2013 Osservatore permanente della Santa Sede al Consiglio d’Europa; ordinato vescovo nel 2013, nunzio apostolico in Venezuela sino al 2021, anno in cui venne nominato Nunzio presso l’Unione europea. A Cuneo si svolgerà venerdì 2 dicembre (20.30, Sala Lanteri) un dialogo commemorativo fra Celestino Migliore (nunzio apostolico a Parigi) e Piero Coda (Università Sophia).

Il punto fermo nel pensiero di Giordano e nella sua vita può sintetizzarsi nell’affermazione di Gesù «io e il Padre siamo Uno» (Gv 10, 30). Egli mirava sempre all’unità, alla comunione, ma non attraverso l’omologazione, l’annullamento delle differenze, l’appiattimento delle peculiarità personali, bensì nella loro valorizzazione armoniosa, dialogica, vivacizzante. Questo principio cristiano, alla base del dogma della homoousía, va incarnato a ogni livello, che si tratti del rapporto fra persone, il quale comporta quindi un dialogo vero e comunicativo fra identità differenziate, oppure fra diverse confessioni cristiane, nell’ecumenismo cristiano, o anche fra distinte religioni, nel dialogo interreligioso, o ancora nelle dimensioni sociale e politica, con l’Europa quale possibile modello di unità delle differenze, capace di conciliare unità e libertà.

L’unità delle differenze è possibile nel dialogo, a condizione che esso non si riduca a duo-logo, mera comunicazione o mediazione fra due, tanto meno a dia-bolon, diabolica divisione e contesa, bensì ad apertura di entrambi, di tutti gli interlocutori a una dimensione a essi ulteriore, che trascende tutti mostrando i limiti di ciascuno. Solo l’apertura alla trascendenza, la «capacità di trascendersi», permette il reciproco rispetto fra le persone e rende un dialogo possibile, in libertà e unità, alterità e verità, espressione e comunicazione. Il dialogo, al cospetto di ciò che trascende i propri riconosciuti limiti, non riguarda solo donne e uomini, ma anche comunità e religioni, società e culture, persino le differenti scienze contemporanee o le diverse dimensioni dell’uomo: nella consapevolezza dei propri limiti da parte di ciascuno, e anche dell’interdipendenza planetaria fra la ricca pluralità di persone e di orizzonti. Sottolineando come il dialogo sia «vero evento ontologico e veritativo», Giordano teorizzò un vero e proprio «dialogo ontologico», distinguendolo dal mero tatticismo, dalla tolleranza, dal compromesso, dalla giustizia retributiva, mostrando invece come esso abbia nell’amore dialogico trinitario il suo modello e consista sia nel trascendersi delle distinzioni nell’unità, sia nell’incarnarsi dell’Uno nelle differenze come reciprocità del farsi dono.

Giordano ricercava in maniera incarnata luoghi di dialogo fra le persone, riscontrando la possibilità sempre più incombente del fallimento della città quale modello di aggregazione sociale e comunitaria, a motivo dei gravi squilibri economici e ambientali a cui dà luogo una civiltà urbana. «La polis può fallire, occorre fare un salto di qualità». La campagna e la montagna, grazie al loro più diretto contatto con la vita naturale, costituiscono quindi forme di vita alternative alla formula cittadina, capaci di far riscoprire e innovare comunità di persone in cui le relazioni valorizzino le libertà attraverso la fratellanza.

Rivendicando francescanamente la «vocazione ecologica» cristiana – come annunciata da papa Giovanni Paolo II e fatta propria da papa Francesco –, Giordano la individuava nella «capacità di stupore davanti alla bellezza della natura, davanti al fatto che la realtà esiste, davanti al miracolo della creazione che sempre si rinnova», nella «grave responsabilità perché il nostro pianeta resti una casa abitabile per l’umanità». Tuttavia egli sottolineava anche la difficoltà a trovare nella presente natura un criterio etico, paradigmatico, poiché la natura crea ma anche distrugge, è cosa buona tuttavia uccide, assieme alla bellezza e all’armonia porta in sé germi di violenza e di male. La natura resta invero una cosa bella e buona, degna di stupore e simbolo esemplare, tuttavia a condizione di comprenderla nel suo stato attuale di soggezione alla caducità, come ben indicò l’apostolo Paolo (Rm 8, 19-25), situazione nefasta conseguente alla separazione fra creazione e Creatore provocata dall’uomo stesso attraverso il peccato originale, in preda alla tentazione realizzata dell’autonomia umana da Dio. Il Figlio di Dio, rinunciando liberamente e in quanto uomo a tale autonomia, donando la propria vita, trasforma la violenza conseguente al peccato originale in occasione di amore, che sta proprio nel donare se stessi. Incarnandosi, Gesù assume in sé anche la natura, ricapitola in sé tutte le cose, del cielo e della terra (Ef 1, 9-12). Nella morte in croce il Cristo dona se stesso per amore e nella resurrezione dimostra di aver vinto la violenza, la morte, il male, così redimendo non solo l’umanità, ma anche il cosmo intero, tutta la natura, ristabilendo pertanto la possibilità dell’amore universale, cosmoteandrico. Quella logica della resurrezione già presente nella meraviglia della perenne rigenerazione e riproduzione della natura viene in Gesù Cristo ulteriormente liberata ed elevata in una vera e propria nuova creazione. Ed è volgendosi alla cura responsabile della creazione divina che ogni uomo può partecipare – secondo Giordano – al progetto d’amore di Dio per l’uomo e l’universo intero. «La vera natura è la casa dell’umanità, il luogo dove può vivere»; «la creatura non è all’origine della natura: essa è dono che la precede ed ha una vera alterità». La natura è il dono dell’amore di Dio per l’uomo, perché possa rintracciare nella sua meravigliosa variegatezza l’armonia divina, trinitaria, sospesa alla virtù umana e al suo stupore.

Cogliamo qui il nucleo teologico, ma anche etico e ontologico del pensiero di Giordano, cioè l’amore come dimensione e verità più grande di qualsiasi male terreno, violenza umana, sofferenza creaturale. Gesù colse nell’amore per l’altro la via per trasfigurare la dissonanza in bellezza, redimere dalla morte l’uomo per renderne divine le incarnate parole. Nel cristianesimo, quindi, «Il dolore umano, unito al Cristo sofferente, diviene icona (pur sempre terrena e quindi condizionata dal peccato) di quella distinzione (“ferita”) che c’è in Dio stesso. In Dio essa è totalmente abitata dall’Amore: la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo».

Per Giordano è il Creatore stesso a creare liberamente l’uomo libero, a creare una natura che a sua volta crei, nel gioco e nell’amore. «All’inizio dei tempi Dio crea e infonde nel reale la sua stessa potenzialità creatrice»; «Dio ha creato una realtà a sua volta capace di creare ed è sgorgata l’evoluzione creatrice». Giordano amava richiamare l’Epistola di Giacomo, laddove l’apostolo esorta: «Siate facitori del verbo», «siate creatori della parola» (Gc 1, 22). L’uomo e attraverso l’uomo la natura intera sono chiamati da Dio, libero Creatore, trinitario amore, a essere creatori, liberi artisti, capaci di redimere dalla sofferenza della vita mortale attraverso il gioco creativo, la meraviglia della parola, la onnicorrelatività dell’amore, la presenza del Risorto laddove due o tre persone siano riunite nel suo nome: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20).

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