giovedì 27 ottobre 2016
Nello scenario della dittatura di Hoxha, la storia di due cattolici, un gesuita e un laico fra torture e lavori forzati
Anton Luli, gesuita albanese

Anton Luli, gesuita albanese

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È il momento della Chiesa albanese. La canonizzazione di Madre Teresa il 4 settembre scorso, la beatificazione di 38 martiri del comunismo il prossimo 5 novembre a Scutari e la berretta cardinalizia che il Papa consegnerà il 19 novembre a don Ernest Simoni, ultimo sacerdote vivente tra quelli perseguitati dal regime comunista, stanno lì a testimoniarlo. Perciò giunge quanto mai opportuno il libro Martiri d'Albania (1945-1990) curato da Roberto Morozzo della Rocca e Andrea Giovannelli (La Scuola, pagine 202, euro 15,50), che di quella stagione di sofferenze ci restituisce uno straordinario affresco, con testimonianze di prima mano.Il volume ha il pregio di collocare sullo scenario della spietata dittatura di Enver Hoxha, tratteggiata nei saggi introduttivi dei curatori, la vicenda personale di due cattolici albanesi, il gesuita Anton Luli e il laico Gjovalin Zezaj, i quali sperimentarono il carcere duro e i lavori forzati, raccontata in prima persona dagli stessi protagonisti. Zoom potentissimo che ci fa entrare nei lager, nelle camere di tortura, nelle luride baracche arroventate dal sole d’estate e spazzate da vento e gelo d’inverno. Ci fa assistere a interrogatori surreali e processi già decisi prima ancora di cominciare (trasmessi alla radio la domenica mattina, in un programma intitolato L’ora gioiosa oltre a farci conoscere altre figure di sacerdoti non a caso inseriti fra i 38 martiri di ormai imminente beatificazione, e i loro crudeli aguzzini, alcuni dei quali non hanno nulla da invidiare ai "colleghi" dei campi nazisti.Con rigore storico (pregevole l’apparato di note a pie’ di pagina), ma anche con pathos il libro offre uno spaccato delle persecuzioni cui fu sottoposta l’intera comunità cattolica albanese, che Hoxha decimò perché in essa c’era l’intellighenzia del Paese. Impressionante la descrizione delle torture. Anton Luli racconta: «Adattarono un vecchio telefono con la manovella, collegandovi due fili metallici che fungevano da poli elettrici». Quando l’interrogato non voleva rispondere, gli mettevano i poli nelle orecchie e giravano la manovella. «Il corpo veniva come scaraventato in un immenso spazio: uno sconquasso totale, uno scintillio terribile, dolorosissime scosse e contrazioni muscolari, le mascelle sbattevano talmente forte che i denti si spezzavano. La tortura non poteva durare più di trenta secondi, altrimenti lo sventurato moriva. Subii più volte questo trattamento e venni a sapere che ad altri compagni applicavano la corrente ai genitali».Né questo era l’unico metodo. «Ad alcune donne, per esempio – è sempre Luli che ricorda –, misero un gatto a contatto con la pelle, quindi legarono le vesti in modo che la bestia non potesse uscire. Tormentavano poi l’animale cosicché reagisse con graffi e morsi. Ad alcuni tagliavano sulle braccia una striscia di pelle e mettevano sale sulla ferita. Ad altri ponevano uova bollenti sotto le ascelle legando le braccia così che non potessero muoverle. Altri ancora furono legati a un albero nel cortile della Sigurimi (la polizia segreta, ndr) e obbligati a restare in piedi senza mangiare né bere per vari giorni».

Spesso questi trattamenti avvenivano subito dopo l’arresto. Ma non meno crudele era finire nei campi di lavoro. Zezaj, che vi ha trascorso 11 anni, così riassume la "filosofia" che li ispirava: «I campi servivano per fare morire le persone, per infliggere sofferenze con dure condanne, non erano pensati per realizzare lavori realmente utili. C’erano dei periodi in cui avevo perso completamente le forze e non riuscivo nemmeno a spostare un sasso. Che risultati ottenevano questi campi? Nessuno. Solo instaurare il terrore».

Zezaj, pur molto anziano e fiaccato nel fisico (in seguito alla tortura con l’elettricità è diventato sordo), vive ancora. Il gesuita Luli, nato nel 1910, è morto nel 1998. Non sono dunque martiri in senso classico (come i 38 beatificandi), come non lo è don Ernest Simoni, che tra qualche settimana diventerà cardinale. Ma il Papa, parlando di quest’ultimo ha definito anche lui «un martire». E dunque analoga qualifica può essere estesa ai due protagonisti del volume. Le loro vicende riassumono le sofferenze di tutta la Chiesa in Albania. Sacerdoti, religiosi e laici. Nessuno fu risparmiato dalle persecuzioni. Ordinato nel 1942, Luli venne arrestato la prima volta nel 1947 e fu liberato solo nel 1989. Singolare il fatto che poté emettere i voti solenni da gesuita dopo mezzo secolo di forzata attesa, da ottuagenario nel 1991.

La vita di Gjovalin Zezaj, invece, racconta le sofferenze dei laici, che non furono meno terribili. A Scutari egli dette vita, assieme ad altri studenti, a un professore e a un allievo del Seminario Pontificio, Mark Cuni (poi fucilato nel 1946 col gesuita Giovanni Fausti, due laici, e altri due sacerdoti, tutti nell’elenco dei 38 prossimi beati), alla cosiddetta Unione albanese, movimento non violento di opposizione al regime, che tentò di informare la popolazione dei pericoli dell’incombente dittatura. La sua "colpa" fu solo questa. La giovane età (15 anni), gli risparmiò il plotone di esecuzione, ma gli costò più di un decennio tra carcere e lavori forzati, alcuni dei quali passati nella palude di Maliq e nel campo di Beden, due dei più famigerati luoghi di detenzione dell’intera Albania.Tuttavia, come annota Morozzo della Rocca nell’introduzione, anche questi due testimoni «guardano al passato con pacatezza e serenità. Naturalmente il comunismo è un male assoluto per loro che ne sono stati vittime». Ma «dalle loro parole traspare mitezza anziché risentimento o desiderio di rivalsa». Un tratto comune anche ai 38 martiri, morti perdonando i loro persecutori, e al prossimo cardinale Simoni. Sì, è il momento della Chiesa albanese. Non solo per l’esempio di fedeltà a Cristo che ora produce i suoi frutti, ma anche come "scuola di perdono" nell’Anno Santo della misericordia.

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