venerdì 4 settembre 2020
Osannato ai tempi dell’Urss, accantonato dopo l’89, l’autore è protagonista oggi di una riscoperta che lo accosta ad altri classici del Novecento. In lui le tradizioni del popolo kirghizo
Lo scrittore sovietico Cingiz Ajtmatov (1928-2008)

Lo scrittore sovietico Cingiz Ajtmatov (1928-2008) - WikiCommons

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Sulla letteratura russa degli ultimi decenni del Novecento è necessario procedere ad una revisione sull’impatto critico, e di conseguenza, anche sulla ricezione che ne hanno avuto i lettori, ancora ancorata ad una posizione che distingue autori del dissenso e scrittori, pur di alto valore, che hanno operato nella Russia sovietica e che, ingiustamente, vengono considerati minori. È una questione che ha posto e ha documentato in modo magistrale anche Frank Westerman, in Ingegneri di anime, tradotto da poco da Iperborea e che ritorna ora con la ripubblicazione di alcuni libri di Cingiz Ajtmatov, scrittore sostenuto tra gli anni Settanta e Ottanta, soprattutto da Ugo Mursia, in una collana che dava spazio ai più significativi scrittori sovietici, poi “dimenticato” e ora finalmente riscoperto grazie soprattutto alla casa editrice Marcos y Marcos, che sistematicamente sta riportando in libreria le sue opere più note, in linea con il riconoscimento che questo autore ha avuto a livello internazionale, dove è riconosciuto come un classico, sia dalla critica, che dai lettori. Questo è successo, altrove, perché alcune categorie critiche sono cadute e l’opera letteraria ha potuto essere valutata nell’interezza. Ajtmatov dimostra di essere uno scrittore ancora oggi attualissimo, per la sua capacità di far convivere nelle storie due anime, quella della tradizione e della minoranza, con i suoi ritmi di vita naturali, con le proprie identità, tramandate di generazione in generazione, con un punto di riferimento fermo dettato dalla cultura orale delle piccole comunità e quella della grande anima russa, visto che fin da piccolo, la sua formazione ha contemplato anche lo studio della lingua nazionale e le letture dei grandi autori della tradizione.

Così Ajtmatov riesce a costruire, nella sua letteratura, una forma di fedeltà assoluta alla sua terra, quella Kirghisia, oggi Kirghizistan, repubblica senza sbocco sul mare lungo la Via della Seta, confinante anche con la Cina e, ai tempi di Ajtmatov, una delle repubbliche socialiste dell’Asia Centrale, agli estremi confini dell’universo sovietico. Lo dimostra, in modo particolare nei quattro racconti, raccolti sotto il titolo Occhio di cammello (BesaMuci, pagine 100, euro 14,00), una delle prime opere dello scrittore, significativa perché rappresenta il punto di distacco dalla posizione retorica del realismo socialista che aveva caratterizzato le prime prove giovanili dello scrittore, che qui guarda con forza, con naturalezza, senza preconcetti alla tradizione della sua terra: Ajtmatov non si adegua ai canoni che richiedevano una sorta di propaganda del proletariato, ma sceglie di descrivere la condizioni umana, di guardare in faccia gli uomini e le donne della sua terra, mettendone in luce i sentimenti, le passioni, le fatiche, raccontando un mondo dove il legame tra le generazioni è considerato una sorta di sacralità, incorruttibile e dove il senso del dovere domina come richiamo morale. In più Ajtmatov accentua il richiamo alla bellezza di questo territorio arso in estate, freddo e gelido in inverno, attraverso descrizioni liriche che diventano una prerogativa della sua scrittura, che pur nutrendosi della tradizione dei grandi scrittori russi, sceglie sempre di rimanere nell’ambito di una narrazione sapienziale, spesso in forma di parabola o di fiaba, proprio per accentuare quel carattere popolare, di accessibilità a tutti, senza per questo rinunciare ad una propria, personalissima voce.

Sono aspetti che ritroviamo anche nel romanzo breve Il primo maestro (Marcos y Marcos, pagine 124, euro 15,00), pubblicato in edizione originale nel 1962, uno dei libri più belli sulla scuola e sull’importanza dell’istruzione, come forma di crescita e di consapevolezza della persona, tanto che ha avuto anche importanti versioni cinematografiche, una nel 1965 del regista Andrej Koncalovskij, di cui lo stesso Ajtmatov è stato sceneggiatore, con un premio alla Mostra del Cinema di Venezia per la miglior interpretazione femminile e l’altra, con il titolo, La strada verso casa, nel 1999, come omaggio indiretto, del regista cinese Zhang Yimou. La storia è struggente e vede in scena Diujsen, un giovane maestro, che viene inviato in un lontano e piccolo paese del Kirghizistan, per costruire una scuola. Siamo nel 1924, nel primo anno del potere dei soviet, e tutto è lasciato all’improvvisazione. Il giovane maestro non ha grandi studi, ma una forza invidiabile rispetto al suo progetto e al suo mandato, che resta nel tempo nella simbologia di due pioppi, sopra un poggio che sarebbe stato chiamato “la scuola di Djujsen”. Ajtmatov la racconta molti anni dopo, utilizzando un tono leggendario, perché non riusciva a immaginare che quell’uomo placido e barbuto avesse insegnato ai bambini, essendo lui semianalfabeta. Pensava che la sua storia fosse una delle numerose favole che circolavano nel villaggio. Invece, come poi dimostra con il racconto, si sbagliava. Allora ritorna a quegli anni lontani, alla diffidenza degli abitanti rispetto al giovane sconosciuto, alla caparbietà nel dare un luogo per l’istruzione, all’affetto per una ragazzina, Altynay, che diventa figura cardine del racconto, orfana, cresciuta dagli zii e promessa sposa ad un ricco pastore, col destino di diventare concubina del marito. Il giovane maestro le darà un aiuto morale. Quello che resta di questo racconto, ancora oggi attualissimo, è però il valore dell’istruzione e dell’educazione, come diritto della condizione umana. Come dice Ajtmatov: «Il maestro non è solo colui che viene ad insegnare, ma piuttosto chi, mediante le sue creazioni, apre i nostri occhi alla vera natura delle cose ».

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