giovedì 21 aprile 2011
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Il microcredito ha un impatto decisivo sulla qualità della vita di una comunità? L’aumento della scolarizzazione è automaticamente sinonimo di nuove generazioni più istruite? L’imposizione di quote rosa a livello di governance locale sortisce effetti duraturi? Non lo sappiamo. O meglio: a queste domande, fino ad oggi, non si è risposto in modo scientifico, sulla base di dati oggettivi e comparabili. Ecco perché, nonostante gli ingenti investimenti profusi in questi decenni nella lotta alla povertà, alcuni dei più importanti obiettivi del millennio appaiono ancora pura utopia. «Nel XX secolo la "sperimentazione clinica" ha rivoluzionato la pratica medica. Sfortunatamente, lo stesso non è avvenuto con le politiche di aiuto ai poveri». È la tesi di Esther Duflo, enfant prodige dell’economia – a 29 anni ottenne una cattedra al prestigioso Mit di Boston – e vincitrice l’anno scorso della «John Bates Clark Medal», sorta di Nobel assegnato al miglior economista under 40. Francese, oggi trentottenne, Duflo è la co-fondatrice dell’Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab, un centro di ricerca e azione che pone alla base della lotta alla povertà l’uso di «studi controllati randomizzati», ossia valutazioni dell’efficacia di singoli progetti di intervento attraverso sperimentazioni scientifiche. Se è vero, infatti, che economisti di ogni orientamento concordano ormai tutti, in teoria, sulla centralità dello sviluppo umano – quello che ha tra gli indicatori chiave istruzione e sanità – «ciò che continua a mancare, a livello di cooperazione e più in generale di elaborazione delle politiche di sviluppo, è un approccio razionale». Dati, test, sperimentazioni rigorose sono i grandi protagonisti di I numeri per agire. Una nuova strategia per sconfiggere la povertà (pp. 172, euro 18, traduzione di Massimiliano Guareschi), in uscita per Feltrinelli. Un libro in cui Duflo dimostra la debolezza delle tesi di chi sostiene che, visti i fallimenti degli aiuti internazionali, i Paesi ricchi dovrebbero fare un passo indietro e lasciare che i poveri si occupino di se stessi. Una posizione che la brillante economista giudica «ingenua e pericolosa». Quando le chiediamo, allora, quale sia la chiave per il successo delle politiche di sviluppo, risponde con semplicità: «Potrà sembrare ovvio, ma prima di cercare una soluzione è necessario comprendere esattamente qual è il problema. Troppo spesso ci innamoriamo di una particolare tecnologia, ad esempio i palmari per le scuole, e dimentichiamo quale è in realtà la carenza che dovremmo affrontare. Inoltre, dovremmo spendere più tempo per capire perché tale carenza è presente: perché la gente – i poveri, gli insegnanti, i politici… – si comportano in un certo modo? Quali sono i motivi razionali dietro alle loro azioni? E c’è qualcosa che potrebbe spingerli verso comportamenti più desiderabili?». Se si capisse, ad esempio, perché in certi contesti africani le zanzariere distribuite gratuitamente vengono utilizzate come reti da pesca, si potrebbe immaginare a quali condizioni gli interventi di prevenzione alla malaria potrebbero invece avere successo. «È poi fondamentale valutare l’impatto di un singolo progetto prima di applicarlo su larga scala. Altrimenti, il rischio è sprecare denaro ed energie». Quello di Duflo è un approccio che sfata molti stereotipi – ad esempio che l’incentivo migliore per convincere i poveri a mandare a scuola i loro figli sia quello economico – e che si configura come «anti-ideologico» per definizione. «Oggi moltissimi sforzi per lo sviluppo sono vanificati da quelle che Abhijit Banerjee e io abbiamo chiamato "le tre i": ideologia, ignoranza e inerzia. Programmi concepiti secondo una particolare ideologia e nell’ignoranza di ciò di cui i poveri hanno davvero bisogno persistono, soprattutto a causa dell’inerzia. È il motivo per cui in tutta l’India esistono "comitati educativi di villaggio", ma la maggior parte dei genitori e persino alcuni membri non ne hanno coscienza. La buona notizia è che spesso è possibile migliorare questi programmi correggendoli con una dose di realismo: per esempio, i genitori possono convincersi a investire nella formazione dei figli quando si mostra loro con chiarezza ciò che i ragazzi imparano o non imparano a scuola. Una volta consapevoli, essi sono in grado di prendersi maggiori responsabilità». L’attuale dibattito sulla cooperazione allo sviluppo è incagliato su alcuni estremi: dalla teoria della «carità che uccide», portata avanti dall’economista zambiana Dambisa Moyo, alle rivendicazioni di chi dice che i Paesi ricchi investono poco nello sviluppo. Per Duflo, il rischio è di lasciarsi fuorviare dalla sostanza del problema: «Oggi siamo intrappolati nell’alternativa: gli aiuti allo sviluppo sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno, oppure non lo sono per nulla. La verità, ovviamente, è che nessuna di queste posizioni è corretta. Parte degli aiuti è sprecata, esattamente come parte dei fondi locali, di solito perché non spendiamo abbastanza tempo cercando di capire cosa funziona e cosa no. Quando sono usati bene, invece, gli aiuti internazionali possono avere un impatto enorme: pensiamo alla rivoluzione verde in India o al crollo della mortalità nel mondo. Ciò su cui dovremmo focalizzare l’attenzione è come spendere il denaro, che si tratti d’aiuti o di tasse, in modo più efficace».
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