sabato 15 dicembre 2012
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Risulta assai importante, soprattutto nel contesto di oggi, la traduzione di questo libro del grande Ryszard Kapuscinski, edito per la prima volta nel 1969, più di quarant’anni fa, in cui lo scrittore raccoglieva una serie di reportage e di saggi, scritti tra il 1962 e il 1966, riguardanti un periodo cruciale della storia africana, quello della "de-colonizzazione", con la creazione di numerosi Stati indipendenti, un decennio che va dal 1955 al 1966.  Erano gli anni in cui Kapuscinski era corrispondente dell’agenzia di stampa polacca e doveva, come scrive lui stesso, «descrivere ciò che sentivo e che vedevo sul posto, ciò che vi succedeva. E a quell’epoca succedevano molte cose. Ho trascorso in Africa quasi sei anni del suo periodo più burrascoso e inquieto, colmo peraltro di belle – e talvolta troppo facili speranze. Si era alla svolta tra due epoche: la fine del colonialismo e l’inizio dell’indipendenza. Ho cercato di descrivere questo cambiamento, questo sconvolgimento, questa rivoluzione». E anche le sue utopie, come quella dell’identità del continente africano, con un sogno, quello degli "Stati Uniti d’Africa", espresso dal primo presidente del Ghana indipendente Kwame Nkrumna’h, al quale Kapuscinski si ispira per il titolo, citando l’affermazione «Se tutta l’Africa fosse unita…». Ed è questo uno dei temi che ricorrono nel libro, discusso in un saggio tra i maggiori di questa raccolta, «L’Africa intorno alla tavola rotonda», un preciso e approfondito resoconto della prima conferenza al vertice del continente, avvenuta il 22 maggio 1963, in cui si trovano a discutere intorno a un tavolo ventotto dei trentadue leader degli Stati indipendenti africani. Acutamente lo scrittore sottolinea il problema delle due "Afriche", quella nera e quella araba e riflette sull’identità stessa del continente: «Nel definire l’Africa ci si è sempre trovati di fronte all’insormontabile difficoltà di stabilire se essa costituisca un’unità oppure una "molteplicità" etnico culturale». E aggiunge che «l’Africa va considerata un continente caratterizzato da una molteplicità etnica, religiosa, culturale ed economica, un continente differenziato e pieno di contrasti; non un monolito, ma un insieme composito e, soprattutto, composto di neri e di arabi». Una questione che, nonostante il tempo trascorso, rimane ancora fortemente aperta. Kapuscinski mette in guardia dalle posizioni troppo semplicistiche e "statiche", che da parte tendono a dividere il continente in due parti, quella settentrionale e quella dei paesi a sud del Sahara e dall’altra ad affermare che tra le due "Afriche" non esiste "nessuna" differenza. Lui suggerisce quanto sia importante invece affrontare il problema attraverso «un approccio dinamico, trattandosi in sostanza della "direzione" che prenderà il processo della futura evoluzione etnico politica del continente».  Un’altra questione costante che attraversa il libro, ritenuta da Kapuscinski la più importante, è quella legata al neocolonialismo, ai rapporti con  l’Occidente, convinto che «nell’Africa odierna tutto viene deciso dall’economia». Risulta strano che un libro così importante e così ancora attuale e vivido, nelle sue connessioni tra documento storico e analisi sociopolitica condotta in una sapiente unità dalla scrittura di Kapuscinski, a differenza di altri libri dello scrittore polacco sull’Africa, non abbia avuto, dopo la sua prima pubblicazione nel 1969, nessuna traduzione all’estero. Da qui la necessità di riproporlo, lo scorso anno, con un’ampia postfazione del professore polacco Jan Milewski, insigne storico, economista e politologo, che ha sempre collaborato con Kapuscinski e che nel suo scritto non si limita ad inquadrare storicamente gli scenari proposti nel libro, ma traccia un ampio ritratto intellettuale dello scrittore polacco, raccontando di quanto fosse precisa e profonda la sua preparazione relativamente agli aspetti di cui si interessava, frequentando gli studiosi della questione africana in Polonia, partecipando agli incontri nelle università, analizzando tutti i rapporti economici sul Continente elaborati a livello internazionale. Sottolinea Milewski: «Nel suo lavoro di giornalista e analista dei processi politici ha sempre applicato con il massimo rigore i metodi propri dello storico  tra i quali, in particolare, la critica della fonte di informazione (scritta, orale, materiale), la tendenza a vedere i singoli fatti  come momenti di processi di lunga portata, la ricerca di teorie che spiegassero tali processi e, infine, l’ostinazione a voler conoscere tutta la letteratura accessibile sull’argomento e le diverse interpretazioni dell’argomento».
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