domenica 8 maggio 2011
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E se l’Africa, in fatto di architettura, fosse una valida risposta al fenomeno delle archistar? Cosa accadrebbe se il "modernismo tropicale" o la modernità "a bassa risoluzione" diventassero paradigmi costruttivi che dal Continente nero si riversassero a casa nostra? Pare questa una delle piste di pensiero e di azione che l’architetto Raul Pantaleo traccia nel suo Made in Africa. Tra modernizzazione e modernità, gustoso libretto da poco uscito per Elèuthera (pagine 164, euro 13,00). Pantaleo di Africa se ne intende: da anni partecipa come professionista di costruzione alle avventure dell’ong Emergency, costruendo centri sanitari, ambulatori e ospedali dove si pensa che hic sunt leones, nell’Africa profonda. Ebbene, Pantaleo svela, nei brevi capitoli che hanno il gusto del visitatore curioso e quasi antropologo, un panorama africano spesso nascosto dal pietismo occidentale, che guarda al Continente come un immenso campo di dolori e miseria. E invece ci sono stranezze ed episodi di eccellenza che danno all’Africa un volto di modernità variegata: appunto "tropicale" quando diventa autonoma, come spiega Fathi Bashier, professore sudanese, che in Centrafrica confronta il parlamento della capitale Bangui, affetto da "gigantismo", con la "monumentalità leggera" che Pantaleo sta modellando costruendo una clinica sanitaria. Ma c’è anche un’altra modernità in terra africana, quella che l’architetto italiano chiama "fotocopia" nella sua espressione post-coloniale: l’autore cita l’esempio della Banca centrale centrafricana nella capitale Bangui: «È a suo modo efficiente, di un’efficienza sobria anche se affettata come tutto quello che è ufficiale in questo Paese. Poi, da qualche dettaglio, si nota che siamo lontani dalle asettiche banche europee: un pezzo di legno che tiene aperta la porta, un secchio da pittore come cestino della spazzatura, viti mancanti, vetri rotti, muri scrostati». C’è pure la modernità megalomane di chi vuole costruirsi nel Sahara un green da golf: «Il campo da golf che sbiadisce nei cinquantacinque gradi di una tempesta di sabbia sembra un’allucinazione, una fata morgana in mezzo a questo deserto. Invece, nel suo irreale nonsenso, è tutto maledettamente vero. Il nuovo green di Khartoum è adagiato tra il Nilo, l’ambasciata americana, la superstrada che corre verso il mar Rosso, il campo profughi di Soba e il deserto. È stato realizzato da un ricco sudanese stanco ci volare tutte le settimane a Dubai per concedersi i "piaceri" del golf». Dall’Africa una nuova architettura, si diceva, più "umana". Come suggeriscono diversi esempi di Pantaleo, che ha viaggiato tra Sudan (Darfur compreso), Sierra Leone, Repubblica Centrafricana e Uganda. Già il confronto che l’architetto milanese pone tra mercato e supermercato è tutta da meditare: «Senchilò è il bazar musulmano di Bangui. È una babele ipnotizzante di colori, odori, persone, musica. La trattativa è continua: si discute sul prezzo, sulla qualità e sulla quantità ma il mercanteggiare è arricchito costantemente dal fattore umano. Al valore monetario la trattativa attribuisce un valore relazionale: si discute per ore di un prezzo, ma è quasi un rituale di conoscenza. Il supermercato cancella tutto questo. Nel supermercato il prodotto ha un costo fisso, esposto e indiscutibile. Si è soli di fronte al nostro bisogno di acquistare».Pantaleo offre un substrato quasi filosofico al suo meditare un’architettura nuova che prenda le mosse dalle terre africane: «L’Africa sembra oggi il luogo dove è possibile inventare una modernità nuova, "a bassa risoluzione", dove la povertà, la mancanza di comunicazione, la distanza, l’isolamento possono essere l’occasione di ripensare un progetto di futuro fuori da qualunque schema precostituito. Costruire luoghi capaci di confrontarsi con persone che percepiscono la finitezza dell’esistenza come un naturale trapasso significa accettare la sfida di un serrato confronto anche sul senso della vita, dell’immaginario, del futuro». Come, ad esempio, il lavoro approntato da Pantaleo al Centro Salam a Soba, a venti chilometri da Khartoum, in Sudan: «L’idea è nata guardando la montagna di container adagianti intorno all’ospedale in costruzione: trasformare quei cassoni sgualciti di ferro arrugginito in case che accogliessero le solitudini del personale medico». E così, con una seconda "pelle" di frangisole di bambù, si è vinta una «sfida al limite della tecnologia»: abitazioni di container riciclati nel deserto più assolato. E che dire poi dell’uso "terapeutico" del verde in un contesto ospedaliero, come Pantaleo ha fatto nello stesso Centro Salam? «Entrare in questo giardino che lambisce le rive del Nicolo, ancora abbagliati dal deserto che attanaglia Khartoum, è come entrare in u tempo e in uno spazio sospesi. È terapeutico perché accoglie il paziente nel suo percorso di cura con la delicatezza e la forza simbolica che solo la natura può infondere». E se si replicasse tale modello anche nel "deserto" delle nostre opulente metropoli?
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