sabato 19 luglio 2014
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Ben 23.000 morti dal 2000 al 2013 nel tentativo di raggiungere l’Europa; 1.600 l’anno; 6.400 vite stroncate di donne, uomini e bambini che speravano di approdare a Lampedusa (fonte: Migrants Files). Sono i numeri, stimati per difetto, del fenomeno tragico e incessante della migrazione. Sono cifre di per sé eloquenti e spaventose che, comunque, non scalfiscono il muro dell’indifferenza globale, non innescano quella "pìetas" che smuove le coscienze e spinge all’azione. Bisogna andare oltre. Oltre una cronaca ripetitiva che spara titoli usando la parola "emergenza" per indicare drammi ordinari. Se si vuole quindi cogliere la vera portata del reale, svelare ciò che assuefazione, indifferenza e insensibilità non riescono più a farci vedere, allora non resta che affidarsi all’Arte. Al Teatro. Questa la "mission" di Finis Terrae, o perlomeno la metafora che ha voluto mettere in scena. Presentata l’altra sera con successo in prima assoluta alla 68ma Festa del Teatro a San Miniato, questa opera originale di Giovanni Clementi si è avvalsa della regia di Antonio Calenda, che ha avuto l’idea di questo spettacolo prodotto da Fondazione Istituto Dramma Popolare e il suo Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, che lo porterà in tournée.In scena, i due protagonisti, Nicola Pistoia e Paolo Triestino, sono perfettamente a loro agio nel registro crudo di un contesto realistico e ammirevoli nel dare credibilità e coerenza ai loro personaggi anche quando il testo e la regia li fa scivolare in una dimensione surreale. È in effetti una sorta di "dramma dei contrasti", che passa dal dialetto alla lirica, dalla prosa alla poesia, dalla disperazione all’ironia, dal realismo concreto e asciutto alla visione onirica e meta-teatrale. Finis Terrae già nel titolo suggerisce una pluralità di significati (fine del mondo, lembo di terra estremo, ma anche terra di confine, di incontro-scontro-confronto), ma anche nel suo sviluppo drammaturgico e nella costruzione registica non rinuncia a sovrapporre simboli, evocare, alludere. Tentare di sintetizzarne la trama è arduo ma utile per comprenderne la sua originalità: è notte, vigilia di Natale. E già i rimandi alla nascita di Gesù Bambino anche lui "migrante" sono espliciti. Il luogo è una piccola spiaggia isolata, una "waste land", una "terra desolata", un brandello di fine del mondo appunto. Protagonisti due "outcast", due reietti che "sconfinano" nell’illegalità. Sono due contrabbandieri e si chiamano Giuseppe e Gabriele (inevitabili i riferimenti al padre putativo di Gesù e all’arcangelo). Uno romano, l’altro siciliano, distanti caratterialmente, geograficamente e linguisticamente, ma uniti dalla disperazione e dall’ansia di ricevere un carico di sigarette che mai arriverà. Il mare vomita invece all’improvviso un africano sfinito e moribondo. Da qui testo e spettacolo mettono in atto uno spiazzamento: lentamente ma inesorabilmente i due emarginati italiani passano dal dialetto nudo e crudo a sciorinare versi, subiscono al contempo una metamorfosi dell’animo, sviluppano un senso di solidarietà insospettabile. Intanto traghettati da uno scafista-"Caron dimonio occhi di bragia" si moltiplicano gli arrivi degli africani con le loro storie, tradizioni, drammi, desideri di vendetta (tutti attori e ballerini proveniente da diversi Paesi d’Africa)… insomma un affastellarsi, spesso concitato e confuso, di situazioni che trova parziale giustificazione nell’escamotage del sogno. Trattasi, infatti, di visioni oniriche frutto di un identico incubo sognato all’unisono dai due contrabbandieri. Da qui il passo alla situazione meta-onirica in cui non si capisce più cosa è vero e cosa è sognato è breve. Resta, però, una certezza, condivisibile e chiara, testimoniata dalla chiusura dello spettacolo con i versi profetici della poesia di Pasolini Alì dagli occhi azzurri: solo l’arte e la bellezza potranno smuovere le coscienze, creare relazioni e salvare il mondo dalla paura e dalla diffidenza.
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