domenica 20 marzo 2011
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Finalmente le agenzie per lo sviluppo, i leader religiosi, le istituzioni accademiche e persin\ o alcuni funzionari governativi cominciano a riconoscere le mille sfaccettature della cultura africana e il ruolo che questa ricopre nella vita politica, economica e sociale delle comunità e delle nazioni del continente. Gli ambientalisti e le istituzioni internazionali, da parte loro, iniziano a comprendere il ruolo fondamentale della cultura nella protezione della biodiversità. Indipendentemente da dove siamo nati o cresciuti, è sempre l’ambiente che nutre i nostri corpi, forma i nostri valori e condiziona l’evoluzione delle nostre religioni. L’ambiente determina ciò che siamo e l’immagine che abbiamo di noi. Non c’è cultura che possa adattarsi indistintamente a tutti gli esseri umani o soddisfare le esigenze di qualunque comunità. Ora finalmente iniziamo a comprendere il valore della biodiversità, a riconoscere, seppur tardivamente, la bellezza che sta nella diversità culturale e ad accettare il fatto che esistono molti linguaggi, religioni, abbigliamenti, danze, canzoni, simboli, feste e tradizioni – una diversità che dovrebbe essere considerata patrimonio naturale dell’umanità. Inoltre, si sta tentando di porre rimedio ad alcuni dei danni culturali e psicologici inflitti all’Africa dalle molte forze che si sono contese la sua terra. Le gerarchie ecclesiastiche, per esempio, stanno favorendo la cosiddetta africanizzazione della Chiesa di Cristo. I preti africani d’ora in poi accetteranno nomi indigeni, senza più imporre agli africani di battezzarsi con nomi europei. Nelle Chiese si vanno sempre più diffondendo canti e danze africani (anche se a volte le parole e il senso originali vengono modificati) e durante l’offertorio, oltre al denaro, si accettano in dono prodotti agricoli e animali. I leader religiosi africani ed europei hanno iniziato a trovare uno spazio politico e sociale per le culture africane. Di qui l’importanza del messaggio con cui l’allora capo della Comunione anglicana, l’arcivescovo di Canterbury George Carey, nel dicembre 1993, a Nairobi, chiese pubblicamente scusa per conto di quei missionari che avevano condannato in blocco la spiritualità e le tradizioni africane. Ammise che alcuni aspetti di queste culture erano pienamente compatibili con gli insegnamenti di Cristo, anche se potevano essere in contrasto con la cultura, le tradizioni e i valori europei. Carey disse di sperare che il torto commesso fosse riparato, in modo da ristabilire, a vantaggio di tutto il continente, la fiducia e il rispetto degli africani per il proprio modo di vivere, compresa la loro spiritualità, il senso di giustizia, la difesa della vita e dei diritti umani fondamentali. Nel settembre del 1995, quando visitò Nairobi per presentare il rapporto del Sinodo africano sulla Chiesa cattolica in Africa, papa Giovanni Paolo II pronunciò parole molto simili scusandosi per i peccati commessi dai missionari. Riconobbe anche che non tutto il patrimonio culturale africano poteva dirsi satanico o incompatibile con gli insegnamenti di Cristo. Il Papa esortò i leader religiosi d’Africa a comprendere che la cultura di un popolo è qualcosa di dinamico, che non può non lasciarsi influenzare dalle altre culture con cui interagisce, e che questo vale anche per le culture africane, in cui europei, indiani e arabi hanno lasciato il segno con le loro pratiche e tradizioni. Ciononostante, concluse il Pontefice, spetta agli stessi africani decidere quali aspetti delle altre culture fare propri, rivendicando e conservando ciò che queste hanno di buono, e che cosa, al contrario, in questa fase del loro sviluppo non ha valore e deve essere abbandonato. Nessuno può sostituirsi agli africani in questo processo, sottolineò il Papa, senza perpetuare a danno del continente la vecchia cultura del paternalismo. Non c’è dubbio che anche le culture del passato avevano aspetti fortemente negativi: l’eccessiva dipendenza da un’élite che decideva ciò che era lecito e ciò che non lo era, e il vizio di attribuire qualunque insuccesso alla volontà divina. Alcuni comportamenti, che perdurano ancora oggi, non sono altro che crudeltà frutto di ignoranza. Come testimoniano i fatti avvenuti negli ultimi anni in Kenya, Ruanda, Congo, Sudan, Sierra Leone, Costa d’Avorio, Uganda e altri Paesi, gli africani ancora oggi si mutilano e uccidono a vicenda in assurdi conflitti, costringendo masse di profughi a lasciare le loro case e a vivere poveramente in campi malsani e sovraffollati. Tuttavia non c’è nulla di specificamente africano nello sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani, nelle aggressioni fra popoli a causa della fede religiosa o dell’appartenenza etnica, oppure nella discriminazione delle donne. Come riconobbe anche Giovanni Paolo II, le culture sono dinamiche; cambiano nel tempo e nello spazio, interagendo con altre culture, evolvendosi e adattandosi, per cui non si può pretendere che le persone si trasformino in musei ambulanti. La cultura potrebbe essere l’anello mancante verso la creatività, la produttività e la fiducia in se stessi. In conclusione, è essenziale che gli africani abbandonino quella che si può definire cultura dell’oblio, che ha avviluppato l’Africa fin dai tempi del colonialismo, per rimettere insieme i pezzi della loro cultura e della loro storia. Solo in questo modo gli africani avranno le fondamenta su cui costruire il loro futuro.
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