giovedì 15 novembre 2018
Nel suo ultimo libro "Afrotopia" l’intellettuale senegalese elabora un pensiero sul suo continente, fuori da stereotipi e luoghi comuni
Il filosofo senegalese Felwine Sarr: «L'Africa si riscatta da sè»
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«Afro-pessimismo e afroottimismo sono sogni prodotti da altri», sostiene Felwine Sarr, classe 1972, co-direttore con Achille Mbembe degli “Ateliers de la Pensée” di Dakar e Saint-Louis e di recente nominato dal presidente Emmanuel Macron a capo della commissione per la restituzione delle opere d’arte ai paesi africani. Eppure il pensatore senegalese è molto di più. Economista, filosofo, musicista e tanto altro, Sarr è uno degli intellettuali africani emergenti. I suoi sforzi provano a pensare l’Africa attraverso se stessa. Il grande continente, per Sarr, non deve essere più solo oggetto di pensiero ma il soggetto che propone da sé, a partire dalle sue tradizioni e culture, un proprio futuro coerente con la storia africana. Lo si vede bene nel volume Afrotopia (pagine 134, euro 15,00) da poco pubblicato dalle Edizioni dell’Asino che sarà presentato, in occasione di Bookcity, domani alle ore 16.15, dalla traduttrice Livia Apa e da Silvia Riva nella Sala Lauree dell’Università degli Studi di Milano in via del Conservatorio 7.

Come è nata l’urgenza, professor Sarr, di scrivere Afrotopia? E cos’è l’Afrotopia?
«È nato dalla constatazione che i discorsi sull’Africa erano ormai stereotipati, ridotti a ripetere inesorabilmente sempre la stessa antifona. Tutti si erano arrogati il diritto di prescriverle come organizzare i propri spazi politici, economici e sociali. Era come se le più antiche formazioni sociali del mondo, quelle africane, non fossero in grado di pensare al loro destino e dargli una forma. Si riteneva il continente incapace di definire cosa significasse vivere bene insieme e quali equilibri desiderasse articolare negli ordini politici, economici, culturali ed ecologici. Afrotopia riprende in mano la produzione delle proprie categorie di senso, delle proprie metafore del futuro, con l’idea che se pensiamo e immaginiamo dei luoghi altri desiderabili, atopos appunto, possiamo farli accadere nel reale e nella trama della storia».

Come è possibile decolonizzare l’immaginario per riconquistare il potere di reinventare nuove metafore del futuro? «Bisogna considerare che il mondo non è finito. Che le forme sono eternamente non finite e che il lavoro di reinvenzione del mondo sia una necessità. La democrazia, l’economia moderna, il rapporto con la natura delle società moderne sono in crisi e le forme che diamo alle nostre vite individuali e alle nostre avventure collettive devono essere reinventate. Si tratta quindi di rimuovere gli ostacoli concettuali che ci impediscono di vedere la pluralità di mondi e le potenzialità multiple della storia».

Pensa che l’Africa debba liberarsi dall’idea di sviluppo che detta regole e tempi del suo vivere?
«Lei si riferisce a un concetto che crede che l’unico modo per soddisfare i bisogni e affrontare le sfide sia quello che alcune società hanno sperimentato in qualche momento della loro storia, in uno specifico contesto e in una geografia data? E che quella risposta sia l’unica valida in ogni momento e in ogni luogo? Le modalità di risposta alle sfide poste alle società africane devono essere plurali e dare prova di inventività. Potrebbero, naturalmente, prendere in prestito in modo intelligente ciò che sentono di prendere in prestito, ma in nessun modo devono cadere in un mimetismo cieco perché per affrontare le loro sfide le società africane prima di tutto devono fare affidamento alle proprie grandi risorse culturali».

Lei sostiene che la sovranità culturale, intellettuale, politica è indispensabile per creare nuove me- tafore per il futuro. Può spiegare questa idea di sovranità?
«La sovranità intellettuale è la capacità di pensare in modo autonomo. E l’autonomia è diversa dalla autarchia. Si tratta di scegliere tra le opzioni offerte dal reale, dal pensiero, dall’esperienza umana, dall’immaginazione, quelle che si ritengono pertinenti per costruire il proprio presente e il proprio futuro».

Quali sono le caratteristiche di un progetto di civiltà proposto dall’Africa?
«Non lo so. In Afrotopia propongo di riaprire il cantiere e ridefinire un progetto di civiltà africano, fondandosi sulle proprie grandi risorse relazionali, culturali e sociali, per operare nuove sintesi in modo da realizzare le sue potenzialità felici perché esse esistono. Ma spetterà a ogni gruppo incastonato nel proprio contesto il compito di dare una forma precisa, politica, sociale, economica al progetto di civiltà che definirà da sé e per sé».

Per farlo occorre ripensare i concetti di culture africane che esprimono «il benessere e la convivenza», come ubuntu, la teranga, imihigo... Come si differenziano dai fondamenti del pensiero filosofico moderno che c’è dietro l’economia classica?
«La teranga più che l’ospitalità come modalità relazionale esprime l’idea di reciprocità presente nel bene donato. Imihigo è un concetto che proviene dalla storia del Ruanda mentre l’ubuntu con l’idea che “noi siamo perché io sono” esprime una concezione del soggetto e dalla sua relazione con il collettivo diversa da quella formulata dal pensiero europeo. Sebbene esistano degli universali, dobbiamo riconoscere ai gruppi la possibilità di elaborare delle innovazioni sociali e un’ingegneria sociale che gli sono proprie uscendo dall’idea che nulla di speciale, specialmente se positivo, accada in Africa, anche se siamo sempre pronti a riconoscere la creazione di innovazioni particolari ovunque».

Questi concetti possono essere efficaci al di fuori dell’Africa?
«Certo, come i concetti di altri paesi operano in Africa». Perché pensa che tutto si muova in una sola direzione?».

Che cosa intende quando parla della contemporaneità di più mondi? Allude alla fine della globalizzazione?
«No, quello che intendo dire è che c’è una non-linearità nelle dinamiche sociali e storiche. Diverse epoche, diverse modalità di essere sono contemporanee nel presente delle società africane. Regimi di produzione d’essere e di sociabilità non sono necessariamente sostituiti da altri ritenuti più moderni o attuali. Essi si sovrappongono nei palinsesti e danno una struttura più densa al tessuto sociale».

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