venerdì 8 settembre 2023
L’ultimo libro dell’autore romano è una raccolta di testi di vari generi, redatti negli anni, dai quali emerge l’opzione letteraria ed esistenziale che valorizza la sostanza e il “senza fronzoli”
Lo scrittore Eraldo Affinati

Lo scrittore Eraldo Affinati

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Eraldo Affinati è uno scrittore che non delude mai. Perché nei suoi libri c’è sempre “sostanza”. Non vuote chiacchiere o belle parole. La sostanza di cui parliamo è fatta, insieme, di vita e di letteratura, o meglio di un loro vivace intreccio. Forse perché i libri e le parole degli altri (letteratura in questo senso molto concreto) hanno formato non solo lo scrittore Affinati, ma prima ancora (e ancor più) l’uomo. Ciò è chiaramente percepibile nell’ultimo, ponderoso volume dell’autore romano, Vessilli, delfini, cannonate (HarperCollins), che non a caso reca come sottotitolo “Autobiografia letteraria”. È un tomo di quasi 800 pagine (euro 25) che raccoglie materiali eterogenei: brani di diari di viaggio, recensioni, necrologi di scrittori, interviste, articoli di varia natura pubblicati negli ultimi anni in varie sedi (tra cui “Avvenire”). Ma c’è un elemento unificante che compatta i diversi interventi e li organizza in una struttura coerente, articolata attorno ad alcuni grandi temi - ancora una volta - insieme letterari ed esistenziali (tra gli altri: adolescenza, amicizia, coraggio, Dio, esilio, famiglia, giustizia, guerra, memoria, scuola): lo sguardo dell’autore. Uno sguardo e una voce inconfondibili, senza fronzoli e senza alcun tipo di retorica, sempre alla ricerca di ciò che è essenziale, vero, autentico, e che quindi vale la pena considerare e conservare.

Affinati racconta che da adolescente appuntava in fondo ai libri letti le sue impressioni, brevi riassunti, sintetici giudizi. Un po’ come fanno i lettori di professione, cioè i critici. Ma il suo intendimento era un altro: preservare il ricordo delle cose lette e fare in modo che non fuggissero via col tempo. «Mi domandavo: cosa ne farò dei romanzi e delle poesie che sto leggendo? A cosa mi serviranno? Erano intuizioni sfolgoranti, impossibili da mettere a frutto. Emozioni tutte mie destinate a perdersi appena formate ». La grande questione teorica a cui sono state dedicate centinaia di studi - a che cosa serve la letteratura? - viene qui declinata nella carne viva dell’esperienza personale. Non è possibile elencare le decine di scrittori con i quali Affinati si pone in dialogo. L’indice - spiega l’autore - è la «colonna vertebrale» della sua vita. Ci sono i grandi autori sui quali si è formato, quelli che ha scoperto in seguito, quelli che ha riscontrato avere successo presso gli studenti nei lunghi anni di insegnamento in un istituto professionale della periferia romana (tra questi, forse inaspettatamente per qualcuno, anche Verga e Leopardi).

Uno dei motivi che attraversano il libro è infatti la tensione pedagogica dell’autore, l’idea che la letteratura possa rappresentare un formidabile strumento per un dialogo tra le generazioni. Quando leggeva in classe Il richiamo della foresta di Jack London, «quella non era più scuola – i voti e le interrogazioni parevano distanti mille miglia – ma pura esistenza, distillata sul collo dei miei adolescenti inquieti come un liquore aspro in grado di farli diventare più grandi di quanto loro stessi avrebbero mai creduto ». Pavese parla come nessun altro della condizione giovanile: «”Stupefatto del mondo mi giunse un’età / che tiravo dei pugni nell’aria e piangevo da solo”: due versi come questi di “Antenati”, una poesia compresa in “Lavorare stanca” (...), aprono uno squarcio lancinante sull’adolescenza perché si trascinano dietro il vuoto, la solitudine, il tempo morto, le inquietudini e lo sperpero dei tentativi falliti, la caterva di errori, gli entusiasmi, i veri e falsi rigori che continuano a contraddistinguere un periodo dell’esistenza affascinante ma irto di ostacoli». Andare sulla tomba di Conrad a Londra o su quella di Corazzini al cimitero romano del Verano è come sfogliare nuovamente i quaderni della giovinezza. Riprendere in mano Tolstoj o Céline significa scendere in quegli abissi tenebrosi dell’animo umano che conducono alla ferocia della guerra. Riscoprire - e proporre alle nuove leve di lettori - alcuni “grandi minori” della narrativa italiana contemporanea come l’emiliano D’Arzo, il romagnolo Arfelli, il triestino Stuparich equivale ad appropriarsi di un personale canone che non coincide necessariamente con quello accademico (anzi, spesso lo sovverte in maniera salutare). Ma dal critico statunitense Harold Bloom, il celebre artefice del “canone occidentale”, Affinati cava una frase che non ha difficoltà a fare propria: «Quando moriamo, la nostra sopravvivenza dipenderà dalla misura in cui abbiamo cambiato la vita di coloro che verranno dopo di noi». Il libro di Affinati trae il proprio titolo da un folgorante verso del poeta greco Giorgio Seferis. «”Delfini, vessilli, cannonate”, per dire in un’estrema sintesi lirica, ciò che nessun discorso potrebbe mai enunciare». Ciò a dire l’importanza della forma, perché ciò che conta in letteratura sono le parole che rimangono sulla pagina. Parole capaci di aprire mondi sconosciuti e di inaugurare prospettive inedite. Come lo scrigno di tesori e pietre preziose che è questo libro di Affinati.

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